Daniel o l’iperbole e la sua tangente
Anche se sinceramente non sono mai stato molto attirato da questa forma d’arte, l’iperrealismo rimane per me un enigma. Amerei decifrarlo, fosse solo per onestà intellettuale. Una visita alla mostra allestita a Roma, nel Chiostro del Bramante, s’impone. La prima immagine si fa vedere dal Chiostro oltre una porta aperta. È un ingrandimento fotografico, probabilmente il ritratto di un artista importante della mostra – così penso. Mi sbaglio. Non è una foto” è un acrilico su tela di cm 144×115,2. Già dalla prima opera in mostra verifico che non per niente si parla di iperrealismo. Ma verifico pure un altro neologismo legato alla stessa corrente artistica: fotorealismo. Tutte le pitture sono fatte a partire da fotografie e assomigliano perfettamente al loro modello. Cioè il modello non è la cosa rappresentata, ma appunto la fotografia di quella cosa. È la particolarità di questa arte. È pittura di fotografie. Non è diversa per i soggetti che sono quelli già di buona parte della pittura americana lungo il secolo, i paesaggi urbani e gli oggetti più banali della vita quotidiana. Non è neppure il tentativo sfrenato di rappresentare il soggetto in modo realistico che ha spinto artisti di diversi periodi verso l’illusionismo del trompe-l’il. Non è pittura di fotografie, questa è la novità, e questo lascia in me un turbamento e una profonda perplessità che vorrei indagare. Si sa che l’inventore dell’arte fotografica, cioè il primo a trasformare una semplice invenzione tecnica in una vera arte, Nadar, era un pittore di panorami, allora molto in voga, cioè delle rappresentazioni estremamente realistiche di siti celebri. In un primo tempo capì quanto la fotografia, la dagherrotipia, poteva fargli risparmiare tempo e lavoro per dipingere i suoi panorami. Ma ben presto ha lasciato i pennelli, avendo scoperto che con la fotografia aveva in mano un nuovo modo di raffigurare la realtà molto più efficace, in modo particolare per i ritratti. Infatti tutta la Parigi dell’epoca è passata dal suo studio per farsi fotografare tralasciando i ritrattisti tradizionali. Oggi la pittura di Ben Schonzeit, che rappresenta così fedelmente una gigantografia di Daniel, mi sconcerta e mi sconvolge. Perché questo ingrandimento fotorealistico ha qualcosa di osceno o per lo meno di indiscreto. Del volto di Daniel non mi è risparmiato nessun particolare; ogni pelo, ogni ruga, ogni squama di pelle, ogni punto nero o neo che sia, è rappresentato con una minuzia implacabile, terrificante. Non è un ritratto, è una scansione ad alta definizione. Mi ricorda uno sconvolgente paradosso del grande Borges, che cito a memoria: “I nostri geografi sono davvero geniali, sono riusciti a disegnare una mappa del mondo su scala uno per uno!”. Ma solo in questa parte del volto che è a fuoco, perché la macchina fotografica non è l’occhio, ha una debole profondità di campo, e il resto del volto di Daniel, buona parte della mano e del sigaro svaniscono nel flou tipicamente fotografico. L’occhio del pittore tradizionale avrebbe accomodato e restituito la nitidezza ad ogni particolare rappresentato, o scelto volontariamente di lasciare delle parti percepite come meno essenziali nel flou. La fotografia eccelle nel fissare l’istante e fa vedere talvolta quello che l’occhio non può vedere, perché l’occhio ha bisogno di un minimo, di un decimo di secondo per farsi una immagine della realtà, e in questo tempo l’acqua della fontana è caduta, l’ala dell’uccello ha battuto, il piede del calciatore ha colpito il pallone. Questa superiorità della fotografia è anche il suo limite: per rendere conto del tempo, la fotografia è costretta a prendere in prestito dalla pittura la sua capacità di far vedere nascondendo, stuzzicando l’immaginazione. L’opera iperrealista è compiuta in modo assoluto, compatta, senza difetto, senza imperfezione, impeccabile, inscalfibile e tutto sommato impenetrabile, ermetica a forza di esternazione. Di Daniel conosco la pelle del volto, in quell’istante sotto quella luce, conosco anche il sigaro, fumato fino a quel punto, le unghie i primi capelli bianchi, ma sinceramente la quantità d’informazioni superficiali è tale da rendermi impossibile di conoscere Daniel: questo ritratto è disanimato, è una natura morta, un trompel’il. Ma l’occhio si vendica, ricusa l’inganno ed esige di sapere la verità di Daniel, dietro la pelle. La verità, cos’è la verità? Mi è tornata in mente la definizione dell’iperbole: figura retorica con cui s’esagera in più o in meno, e talvolta fino all’incredibile, la verità delle cose, per fini espressivi. Sì, l’iperrealismo è proprio iperbolico, ma lo è anche nel senso matematico: curva risultante dall’intersezione di un piano con un cono, quando il piano è parallelo all’asse del cono. La particolarità di questa curva è in un primo tempo, di tendere velocemente verso la sua tangente che però raggiunge – si fa per dire – solo all’infinito Così un’opera iperrealista si avvicina in un modo spettacolare alla verità che vuole rappresentare, ma questa vicinanza stessa dimostra in modo crudele che l’infinito la separa ancora dalla sua meta.