Damasco – Mercoledì santo
Dai gesuiti, una cappella nel seminterrato di un condominio. Ignazio rivive
Di reperti archeologici ce ne sono infiniti a Damasco, ma non appariscenti come in altri luoghi, che paiono ben più forniti di marmi e di mosaici e di templi. Il fatto è che Damasco non ha mai smesso di essere capitale, in un modo o nell’altro, e quindi ha continuamente sovrapposto, direi quasi soprascritto le sue nuove epoche sulle pietre di quelle precedenti. Per cui non c’è casa nella città vecchia che non abbia nelle sue viscere la memoria dei millenni precedenti.
Penetro in un suq qualsiasi, non quello turistico di Souq al-Hamidiyya, ma quelli a sud della moschea, e mi imbatto in un caravanserraglio, uno tra i tanti, e osservo alcune pietre con le quali sono stati costruiti gli edifici. Lì, grazie alla competenza della mia guida Hassan, ritrovo le epoche assira, ebraica, persiana, aramea, greca, romana, cristiana, abbaside, selgiuchida, omayyade, mongola, mamelucca, ottomana… L’una incastonata nell’altra, l’una avvolta dall’altra, l’una fagocitata dall’altra, l’una giustapposta all’altra.
La stessa perla di Damasco, la moschea degli omayyadi, ne è un esempio, tradendo più che in ogni altro posto la sua origine che scivola nella notte dei tempi, almeno sino al IX secolo prima di Cristo, all’epoca aramea, per diventare in seguito romana e poi cristiana, con l’ingresso ricavato dal Tempio di Giove e la sala di preghiera a tre navate ripresa tale e quale – salvo l’abside, distrutta – dalla basilica cristiana del V secolo. Basilica da sempre dedicata a San Giovanni Battista, di cui resta una cappella nella navata che si dice racchiuda la sua testa.
Nel 636, quando i musulmani giunsero a Damasco e convertirono parte della popolazione, consentirono tuttavia ai cristiani di continuare a professare il loro culto in una parte della basilica, quella occidentale. Un idillio che durò settant’anni, fino al califfato di Khalid ibn al-Walid, che dovette dare un segno della potenza islamica nel mondo allora conosciuto, costruendo la moschea più vasta mai conosciuta. Per cui cacciò i cristiani, rase al suolo vari edifici cristiani e romani, ed edificò la città musulmana per eccellenza.
Poi la messa del mercoledì santo, al convento dei gesuiti, a due passi dalla città vecchia, in uno scantinato che sa di muffa. In uno spogliamento non sistematico, come quello francescano, ma volutamente trascurato come questo dei seguaci di Ignazio, la messa corre sui binari del rigore e della pacatezza, senza nulla togliere e nulla aggiungere alla liturgia.
La settimana santa va rivissuta tale e quale, il più possibile simile a quella che fondò la fede della Chiesa cristiana: se non c’è rigore in questo periodo, quando mai dovrebbe esserci? Nella settimana santa non c’è bisogno di strane e smisurate omelie che finiscono per aggiungere solo chiacchiere alla chiarezza del Vangelo. Troppo spesso. I cristiani di queste parti s’aggrappano a tutto, anche alle certezze liturgiche.