Dall’Oriente, la pace
Erano i più colorati, gli esponenti delle religioni orientali, la cui origine si perde nella notte dei tempi: arancio, giallo, tutte le tonalità di azzurro e verde. Eppure proprio loro rappresentavano quelle religioni che hanno fatto dell’interiorità il centro della vita religiosa. La loro presenza evocava terre lontane, civiltà a noi ancora largamente sconosciute. Ma non solo: essi schiudevano l’orizzonte della fratellanza universale sulle terre che furono la culla del pensare e dell’agire religioso. Non potevano mancare. Così, in questa seconda puntata di una serie di articoli che vuole tenere vivo lo “spirito di Assisi”, parliamo di induismo e di buddhismo di tradizione tendai. Il principe-imprenditore di Coimbatore L’avevo conosciuto nella sua città del sud dell’India, Shri Krishnaraj Vanavarayar, in occasione della consegna del premio “Difensore della pace” a Chiara Lubich, nel gennaio 2001. Aveva tracciato con poche efficaci pennellate un paesaggio dell’India contemporanea che, pur ricca di una eredità culturale e religiosa pluralista e tollerante, doveva affrontare sfide nuove, gravi problemi sociali, tensioni e divisioni, e misurarsi con una mentalità materialista, priva di valori morali. “Il problema centrale – osservava Vanavarayar – è come vincere l’odio con l’amore e come trasmetterlo”. Un personaggio d’altri tempi. Viene da una ricca famiglia del Tamil Nadu, e naturalmente, in gioventù, era diventato leader studentesco. Ma incontrò Gandhi e Vivekananda, e aderì quindi al Baratiya Vidya Bhavan, un’organizzazione che ha l’obiettivo di proteggere e diffondere l’eredità culturale dell’India: pubblicando 1.600 libri, ha assunto il ruolo di espressione della diversità culturale del subcontinente. Cosa dicono le vostre scritture sulla pace? “I Vedanta sono conosciuti come sanatana dharma, i valori eterni. La loro filosofia dice che la divinità è presente in ogni essere vivente, che, quando essa si manifesta, sente aumentare in sé l’amore spirituale. E quando la divinità si manifesta completamente, diventa una sola cosa con la compassione divina d’amore e con la pace. Questa scintilla divina, l’atman, che si può chiamare anche anima, libera da sé stessi, dalla cattiva comprensione di sé: siamo troppo legati alla materia, al corpo, mentre bisogna legarsi all’atman, allo spirito. E così le relazioni cattive e le insicurezze spariscono, e la persona diventa uno con l’universo, avvolta nella compassione e nell’amore. Nella pace. Il punto centrale dei Vedanta è quindi solo la pace. “Un altro concetto importante è quello dell’unità, del non-dualismo, advaita in sanscrito: Dio non è esterno a te, è uguale in tutti. Nell’ignoranza, crediamo che con la creazione siamo stati separati dal resto dell’universo, mentre con la suprema conoscenza tutto è manifestazione di questa unità divina”. In questa prospettiva, cosa le è rimasto nel cuore qualche settimana dopo l’avvenimento di Assisi? “È stata una grande esperienza. In primo luogo debbo esprimere il mio profondo ringraziamento al papa per avere ideato questo progetto al momento giusto: la gente sta cercando sé stessa, incapace di raccogliere le sfide, e non si trovano più soluzioni adeguate. I leader intellettuali e politici non riescono a fare quello che possono invece compiere i leader religiosi: trasmettere il vero amore, la vera religione, la vera preghiera, cioè la soluzione ai mali di oggi. Così questo incontro di Assisi è storico, e il suo esempio dovrebbe essere raccolto dappertutto nel mondo; nel nome della pace e della fratellanza possiamo unirci e lavorare insieme per la pace. Naturalmente, ogni reli- gione può e deve mantenere la sua originalità. Così l’indù può essere un migliore indù, il cristiano un migliore cristiano, il musulmano un migliore musulmano: possiamo praticare la nostra religione con la massima serietà. E lavorare assieme”. Adesso si è tornati nelle proprie case. Come continuare lo “spirito di Assisi”? “Questo straordinario inizio deve essere ripetuto nelle nostre città, nei nostri paesi; forse non su questa scala, ma deve essere ripetuto. Dobbiamo riunirci, noi leader religiosi, lì dove siamo, interrogarci, rispettarci, cercare di capirci, aver cura l’uno dell’altro”. Cosa pensa di fare a Coimbatore, la sua città? “Cercherò di organizzare un incontro simile, soprattutto per trasmettere lo “spirito di Assisi” ai giovani, i leader di domani, coloro che hanno sempre l’anima aperta, disponibile alle nuove idee. Siamo nell’età della scienza, che rischia però di allontanare i giovani dalla vera religione: dobbiamo perciò portare il divino nella scienza. Proporrò anche di organizzare dei “laboratori giovanili” in cui presentare la religione in un’ottica positiva, in una via semplice e pratica. Non bisogna proporre la religione nelle forme di migliaia di anni fa, ma in quella adatta ai tempi di oggi, anche se naturalmente i suoi fondamenti debbono rimanere intatti. Insomma, la religione non deve rinchiudersi solo nelle chiese, nei templi, nelle moschee: deve rivolgersi a tutta l’umanità, per aiutarla a raccogliere le sfide di un tempo più morale e più giusto”. L’India, lo sappiamo, è in questi anni coinvolta in un conflitto lungo e pericoloso con il Pakistan. Cosa può fare la religione per dimostrare che la guerra non è mai una buona soluzione? “Molte volte le guerre sono dichiarate e combattute in nome della religione, mentre la religione ha il solo compito di promuovere la pace. Essa deve aiutare a sviluppare i senti- menti di fraternità e riconciliazione. Il ventesimo è stato un grande secolo, con uno sviluppo straordinario della tecnologia e con la progressiva scomparsa del colonialismo. Queste due tendenze hanno aiutato l’umanità a cambiare in meglio. Ma la religione è necessaria per mantenere quei valori fondamentali che portano l’uomo alla pace, alla fratellanza, all’ascolto La politica, l’economia e la scienza cambiano, ma la religione no, resta in fondo la stessa. Essa aiuta l’uomo a orientarsi a seconda dei tempi, e a non essere individualista, a mantenere la pace con sé stessi. La guerra e il fanatismo della gioventù sono cattivi segnali, anche da noi. Bisogna lavorare con più forza con le religioni per la pace e la fraternità “. Gli 85 anni del venerabile Mi riceve nella hall di un grande hotel romano, tra uomini di affari e gente in carriera. Quando entra, lui, il venerabile maestro, avvolto nelle sue vesti di seta blu frusciante, qualcosa si ferma nell’aria, gli sguardi si rivolgono al suo sorriso che nulla può turbare, ai suoi inchini pieni di compassione. Ogni sua parola pare un riassunto di secoli, un punto guadagnato in favore dell’eternità. Il venerabile Kojun Handa è uno dei massimi esponenti della tradizione buddhista tendai, una delle più antiche e vive del Giappone. Insegna che il Buddha storico, Sakyamuni, è una manifestazione del Buddha eterno, colui che annuncia la piena verità: ogni uomo è chiamato ad essere anch’egli buddha. “La tradizione tendai è nota anche perché, su impulso dell’allora capo supremo, l’indimenticato Etai Yamada, aveva iniziato un profondo cammino di avvicinamento alle altre culture e di dialogo interreligioso, stringendo rapporti di stima e amicizia con i maggiori leader religiosi del mondo”. Venerabile, qual è il pensiero centrale della tradizione tendai a proposito della pace? “Circa 1200 anni fa, Renghyo Daishi ha iniziato sul Monte Hiei l’insegnamento tendai, che continua ad influenzare tanta gente ancora oggi. Il buddhismo giapponese è nato lì. Una parola chiave per esso è “interdipendenza”, o “vivere insieme”, sostenuti cioè dagli altri. Il papa stesso ha chiesto a tutti noi ad Assisi di unire le nostre mani per la pace, chiedendo di camminare insieme per la pace. Questo spirito è proprio il nostro. Nel mondo di oggi ci sono tanti beni, forse troppi: cibo, abiti, ricchezze. Anche il cuore degli uomini si è degradato al punto che si dimentica di fare qualcosa per i poveri. Non c’è più la forza di accontentarsi, desideriamo troppo, siamo diventati egoisti. Insomma bisogna cambiare. Per questo dobbiamo camminare “seguendo la nostra verità”, come dice Hò Daruma. Se per Cristo questa verità è l’amore, lo spirito dell’amore, per noi è la misericordia, che porta alla scomparsa del dolore e delle sofferenze, e fa sì che tutti gli uomini siano sereni e pacifici”. Qual è l’impegno del buddhismo tendai nel dialogo interreligioso e per la pace? “Da quindici anni, dal primo incontro interreligioso ad Assisi, i buddhisti del Monte Hiei partecipano ogni anno ai summit fra le religioni promossi dal Vaticano, dalla Comunità di Sant’Egidio e dai Focolari. Ma già nel 1981, quando il Santo Padre visitò il Giappone, citò una parola del fondatore del buddhismo tendai: “Servire gli altri dimenticando sé stessi è la più alta espressione della contemplazione”. Il venerabile Etai Yamada, allora nostro presidente, volle organizzare ogni anno sul Monte Hiei un incontro fra le religioni. Ciò avviene tuttora, e lo spirito è lo stesso di Assisi”. Cosa resta nell’anima dopo il 24 gennaio? “Devo dire la verità: sono rimasto profondamente commosso dal fatto che il papa ha compiuto questo pellegrinaggio, assieme a tutti noi, in treno. E mi ha commosso altrettanto il fatto di essere stato fatto accomodare nella stessa fila con lui. Ci ha chiamati per pregare e per fare qualcosa insieme per la pace. Sì, è proprio questo lo spirito delle persone religiose. Sono nato nel 1917 e non so quanto vivrò ancora. Ma finché vivrò voglio lavorare e pregare per la pace, con le mani unite con tutti gli uomini del mondo”.