Dall’Egitto ti ho chiamato
Accadde a Zeitoun, sobborgo del Cairo. Potevano essere le cinque del mattino, quel giorno d’aprile del 1968, e malgrado i suoi otto anni d’età, il piccolo Medhat non sembrava per niente affaticato dalla lunga veglia. A cavalcioni sulle spalle del padre, fissava incantato una misteriosa figura risplendente che si muoveva tra le cupole della chiesa copto-ortodossa di Santa Maria. A quella vista, dall’immensa folla che si accalcava intorno – pare si fossero radunate 250 mila persone, in prevalenza musulmani, ma anche cristiani di varie confessioni – si levavano esclamazioni di meraviglia e di fede. Quelle apparizioni sarebbero durate oltre tre anni, accompagnate da guarigioni. Che si trattasse della Vergine, tutti parevano certi (più tardi – primo riconoscimento ecumenico nella storia di un evento del genere – la conferma del patriarca copto Cirillo VI, di quello cattolico Stefano I e del capo della Chiesa evangelica). E meno che mai dubitava Medhat: per un bambino come lui, di famiglia molto credente, era anzi quasi più naturale vedere la Madonna che non vederla. Contemplavo con gioia – ricorda – quella immagine femminile vestita di bianco, che a volte indirizzava dei gesti di saluto alla folla. Per la prima volta sentii la Madre di Gesù veramente anche madre mia. Per Medhat bambino, poi adolescente e infine studente universitario che con i suoi successi negli studi formava l’orgoglio dei propri familiari, gli anni trascorsero nella crescente attrattiva per tutto quanto concerneva la religione e Dio. Questa sete spirituale, anzi, gli fece considerare anche la possibilità di una consacrazione religiosa, se non fosse stato per il problema dell’abito (Non mi andava di distinguermi per qualche segno esteriore, volevo essere in tutto simile agli altri, uno di loro). Intanto, però, seguiva il solco nel quale era avviato. Già perché fin da piccolo era stato programmato il mio matrimonio con una cugina che viveva in Inghilterra. I suoi genitori, benestanti, avevano destinato una casa per noi due a Londra o al Cairo, dove ci fosse piaciuto risiedere. Per stringere ulteriormente il legame con colei che ormai tutti consideravano la sua fidanzata, e come premio di essere stato ammesso nella facoltà di Ingegneria, nel 1978 il padre regalò a Medhat un viaggio nella capitale britannica. Un’altra esperienza, tuttavia, avrebbe deciso del futuro del giovane, se è vero che niente succede per caso. Fu quando accettai l’invito ad un ritiro sulla montagna, come viene chiamata dagli abitanti del Cairo: in realtà una modesta collina che spicca nel piatto panorama metropolitano. Si trattava di una Mariapoli, la prima in Egitto da quando – a dieci minuti da casa mia, nel popolare quartiere di Shoubra – s’era aperto un centro dei Focolari composto da due straniere, una svizzera ed una libanese. Convinto della propria impeccabile formazione cristiana e abituato ai ritiri spirituali tradizionali, fin dal primo giorno Medhat – malgrado la calda accoglienza ricevuta – rimase sfavorevolmente colpito, se non scandalizzato, dalla novità di persone non qualificate che, attraverso le loro esperienze, pretendevano di insegnare il Vangelo… Al che lui, interrompendole con grande imbarazzo di tutti, denunciava presunti errori teologici. Per non parlare del cibo e dell’alloggio insoddisfacenti. Tutto, insomma, sembrava respingerlo da quel posto. Decise così che appena spuntato il nuovo giorno sarebbe partito sulla sua Fiat 132 nuova fiammante. La notte però, tormentato dalle zanzare, Medhat non riuscì a chiudere occhio. Non era il solo: un europeo, un inglese, gli si accostò comprendendo il suo disagio. E dopo aver raccolto lo sfogo del giovane, gli propose qualche atto di amore concreto, come ascoltare gli altri senza interrompere o dare una mano in cucina, lavando i piatti… Medhat trasecolò: Dov’è scritto nel Vangelo che bisogna ascoltare, soprattutto quando l’altro dice cose sbagliate? E poi, un uomo lavare i piatti? Forse tu non ti rendi conto che qui siamo in Egitto. No, io domani torno a casa!. E invece qualcosa lo trattenne dal partire subito. Le parole recepite quella notte continuavano a girargli in testa: ascoltare per amore, mettersi a servire gli altri per amore… Tutto sommato, perché non tentare? Nelle riunioni in sala, mi sforzai di metterci tutta l’attenzione senza interrompere… e già cominciai a capirci qualcosa. Dopo pranzo, io che mai avevo fatto una cosa del genere, mi ritrovai in cucina ad aiutare: inesperto com’ero, bagnai me stesso e gli altri, ma in compenso mi sentii invadere da una gioia mai provata…. Per farla breve, il soggiorno di Medhat sulla montagna durò non solo l’intero giorno, ma fino alla conclusione del convegno. Entusiasta della spiritualità dell’unità, s’impegnò poi con altri giovani ad approfondirla. Inoltre, lui che a casa era abituato a non muovere un dito perché tutto faceva la cameriera, provò a ordinare la propria camera e a collaborare perfino in certe faccende domestiche. Con grande stupore (misto però a soddisfazione) dei suoi, che non sapevano spiegarsi la causa di quel cambiamento. Qualche anno dopo, ritroviamo Medhat al servizio di leva come ufficiale: 36 mesi, di cui 8 da trascorrere con suo grande disappunto lontano dal Cairo, e quindi dal focolare: Per me era la fonte da cui attingere la vita anche per gli altri, spalancandomi sull’umanità; ma all’epoca chi faceva il militare non poteva avere contatto con nessun tipo di organizzazione religiosa. Malgrado ciò, l’arte di amare appresa dai suoi nuovi amici lo portò a riempire anche quel periodo di distacco con esperienze positive. Quanto alla fidanzata, non era necessario l’intuito femminile per capire che quel legame aveva ben poca probabilità di sfociare in un matrimonio. Difficile pensare a qualcosa di più improbabile della partecipazione ad un convegno in Italia per un giovane egiziano in servizio di leva. Eppure, in modo che non è esagerato definire provvidenziale,Medhat ci riuscì, spinto dal desiderio di percorrere fino in fondo l’originale cammino spirituale che più di altri sembrava saziarlo. E in quei giorni, la conferma: più che a formare una famiglia sua, si sentiva chiamato a dare il proprio contributo ad una più vasta, che abbracciava tutti gli uomini. Era, in certo modo, concretizzare il suo sì alla Madre della luce – così era stata chiamata -, apparsa come segno di pace in Egitto a cristiani e musulmani. In che modo? Una volta concluso anche il servizio militare, pensava, sarebbe tornato in Italia per iniziare il suo iter come focolarino. Chi è innamorato non misura le difficoltà e ha l’impressione quasi di avere il mondo ai suoi piedi. Medhat innamorato lo era, ma non così inconsapevole da illudersi che da allora in poi avrebbe trovato la strada spianata, tutt’altro! Presagiva infatti quali ostacoli, sia familiari che culturali, avrebbe incontrato. Non immaginava però il prezzo da pagare, altrimenti… Ma non anticipiamo i tempi. Con papà c’era sempre stato un rapporto bellissimo. Quella volta però il contrasto era stato inevitabile. Prima di partire di nuovo per un importante convegno, avevo dovuto spiegargli le mie intenzioni riguardo al futuro e dargli la notizia che non pensavo più di sposarmi. Se vai – aveva replicato -, sappi che qui non ci rimetti più piede!. E aveva mantenuto la parola: al mio ritorno, avevo trovato chiusa la porta di casa. Soltanto dopo qualche ora i pianti di mia madre avevano ottenuto di farmi entrare. Per giorni, però, vivevamo sotto lo stesso tetto senza poterci scambiare una parola… Una sofferenza intollerabile per tutti noi. Ma era per Dio, e sapevo che dalla mia fedeltà alla sua chiamata dipendeva anche il meglio per i miei, anche se non avrei saputo immaginarlo. Del resto, come non capire quel genitore angosciato? Di fronte ad una scelta per lui incomprensibile (almeno avesse scelto di farsi prete o monaco!), aveva raccolto su quel movimento ancora così poco conosciuto in Egitto informazioni parziali ed errate. Fino a temere che il primogenito fosse stato irretito in qualche setta. Era il marzo dell’88, e una tragedia incombeva. Papà aveva avuto un infarto. Quando mi precipitai a casa, già non era più in grado di parlare, dopo avere a stento, poco prima, chiesto di me: invece che dall’ambulanza, voleva che fossi io a portarlo in ospedale. Lo trascinai quasi di peso in macchina, insieme a mia madre e a mia sorella. Durante il tragitto, tenendomi stretta la mano, non faceva che guardarmi. Come a significare che considerava bruciata ogni incomprensione tra noi. Morì poco dopo essere arrivato in rianimazione. Non aveva neanche cinquant’anni. Dopo aver riaccompagnato a casa i miei, verso le quattro del mattino, andai a dare l’annuncio anche ai focolarini. Subito dopo, a causa dello stress, persi i sensi. Iniziava un periodo terribile per Medhat, diventato ora il capofamiglia. A casa, all’inizio, non riuscivamo neanche a guardarci negli occhi. Tutti mi ritenevano responsabile della morte di papà. Senza il sostegno dell’altra mia famiglia, quella spirituale, non so come avrei fatto a resistere quando, il giorno del funerale, parenti e conoscenti venuti a fare le condoglianze mi avrebbero lanciata in faccia la stessa accusa. Ero immerso nel dolore, eppure qualcosa in me, una pace di fondo, mi rassicurava che tutto ciò non avveniva senza un disegno d’amore. Un giorno, forse, anche i miei avrebbero capito…. Oggi Medhat fa parte del focolare di Trento e lavora presso una grande multinazionale olandese. Quel giorno è arrivato, anche se è stato necessario attendere ancora degli anni. Dio non poteva deludere chi per lui aveva donato la vita.