Dall’autostima alla compassione
Chi di noi non ha pensato almeno una volta nella vita che avrebbe avuto bisogno di migliorare la propria autostima? E quante volte ha ascoltato dalla moglie, dal marito, dai figli, dagli amici, sfoghi sulla propria scarsa considerazione di sé? La stima di se stessi ha il suo cuore nella valutazione positiva o meno del proprio valore. Da qui la ricerca e il lavoro per incrementarla, soprattutto negli spazi terapeutici.
Vincenti
La nostra cultura occidentale, infatti, ha sostenuto e sostiene che per essere vincenti nella vita, per non essere schiacciati dagli altri e avere un discreto successo nel lavoro, è necessario avere un buon livello di considerazione di sé. Se vuoi essere un leader credibile e avere motivazioni trainanti, non puoi non lavorare sulla fiducia nelle tue capacità, credere che ti possano portare lontano e che questo ti faccia sentire bene di fronte agli altri.
Nulla da contestare in tutto ciò. Tuttavia, ad essere onesti, il costrutto dell’autostima è sempre stato alquanto nebuloso e di non facile “soluzione”, come si migliora una volta che si sia strutturata? Per non parlare del fatto che è diventato l’eldorado del benessere umano, come se fosse l’unico obiettivo da dover perseguire nella vita.
Pressione
Una donna lasciata dal marito arriva a studio chiedendo di poter lavorare sul miglioramento della stima di sé che è crollata quando il suo uomo ha scelto una partner più giovane. Un imprenditore chiede, similmente, di poter ritrovare fiducia nei propri talenti dopo che ha perso una significativa fetta di lavoro, perché oggi sperimenta di non valere niente.
Ebbene, fermo restando che queste richieste sono più che lecite, qualcosa sta cambiando nel modo di affrontarle, proprio in quella fetta di scienza che aveva fatto dell’autostima e del suo incremento il fulcro dei percorsi ben riusciti, la psicologia.
Il passaggio è molto importante e soprattutto affascinante: potrei esprimerlo dicendo che dopo anni in cui l’essere umano è stato vittima della pressione che veniva da se stesso, e da quella altrui – se gli altri mi vedono in gamba, io sono in gamba; ma se mi vedono un perdente, io sono un perdente! –, oggi la ricerca e la prassi hanno aperto gli occhi su un panorama nuovo.
Ansia
Ancora una parola prima di procedere oltre. Dobbiamo tener presente che mantenere un adeguato livello di autostima è piuttosto dispendioso perché significa non scendere nelle nostre prestazioni e stare al passo con la valutazione degli altri. In poche parole: è vero che il perseguimento dell’autostima è motivante, ma è anche molto precario il “piacere” che ne deriva, mentre l’ansia e lo stress paradossalmente rischiano di aumentare. Per non parlare della perdita di attenzione agli altri e alle loro necessità.
Scrive Kristin Neff: «È vero che l’alta autostima ha almeno un beneficio tangibile e per nulla trascurabile, la felicità. Se ti piaci, tendi ad essere gioioso […] quando pensiamo di essere fantastici, la vita è fantastica […], ma il prezzo pagato per la felicità momentanea dell’alta autostima può essere eccessivo» (La self-compassion, FrancoAngeli, 2019).
Auto-compassione
Qualcosa però sta accadendo e un’anticipazione è stata data col titolo del testo della Neff. Il senso di religiosità innato nell’uomo, il bisogno di spiritualità, inteso come ricerca di qualcosa che vada oltre se stessi, sta attraversando le scienze umane e offrendo loro una prospettiva diversa: la compassione e l’auto-compassione (self-compassion).
Suona male, immagino. Suona come consolatorio o proprio per quei perdenti che non ce l’hanno fatta a sentirsi meglio. Invece ha una profondità enorme, tanto che ne è nata una nuova strategia terapeutica, la Terapia focalizzata sulla compassione (TFC, iniziatore Paul Gilbert). Non ci interessa entrare nei dettagli tecnici e nella tipologia degli interventi previsti, ma è evidente la rivoluzione anche solo nel mettere al centro la compassione per un nuovo modello neuro-psicologico di stampo evoluzionistico, da qualche anno approdato anche in Italia.
Sensibilità
L’essere umano ha bisogno di uscire dalla gabbia del successo e dell’efficienza a tutti i costi. C’è anche altro nella vita, il credente lo sa, anche se spesso lo dimentica ed è la scienza stavolta a ricordarglielo. Quella particolare sensibilità alle sofferenze di se stessi e degli altri, unita a un forte desiderio e alla volontà di alleviarle, come viene definita la compassione appunto, diventa la via per essere meno critici, per non affogare nei sensi di colpa e vergogna, per nutrire le motivazioni quotidiane di qualcosa di diverso che non sia il primeggiare e l’avere un corpo impeccabile.
Ci dicono le ricerche più recenti che favorire la compassione, cioè pensieri, comportamenti, modo di parlare compassionevoli, «ha effetti sul funzionamento cerebrale, specialmente nelle aree responsabili della regolazione emotiva» (Paul Gilbert, La TFC, Franco Angeli, 2012), da cui benefici sui livelli di rabbia, sul sistema immunitario e sul benessere globale dell’individuo. E, cosa per nulla trascurabile, sulla capacità di affiliazione e di connessione anche verso sconosciuti. Lo “straniero” (in senso ampio) viene percepito in modo meno minaccioso, quando la persona acquisisce un’attitudine esistenziale compassionevole.
Valori
Sarebbe interessante approfondire l’argomento che qui ho solo accennato, perché ritengo che abbia un’enorme portata sul modo di accostare l’essere umano, di aiutarlo a comprendere cosa possa essere il suo “benessere”, e per la riappropriazione di valori che la nostra cultura sta offuscando. Gentilezza, amorevolezza, calma verso sé e verso gli altri, tolleranza delle emozioni difficili, capacità di convivere col limite senza operazioni di restyling, accoglienza (e non rifiuto) della sofferenza, diventano un obiettivo terapeutico serio e scientificamente supportato da studi, ricerche ed esperimenti.