Dalla parte delle vittime in Israele e Palestina
Riportare a casa Hersh. E assieme a lui, Doron e le sue bambine di 5 e 3 anni Raz and Aviv. Riportare a casa i sei membri della famiglia Silberman: il più piccolo ha appena 9 mesi e riportare a casa Sharon, David e le loro 3 bambine.
E la lista diventa ogni giorno più lunga: 199 ad oggi sono le persone scomparse e probabilmente rapite dal gruppo terroristico di Hamas che sabato 7 ottobre ha fatto incursione in sei basi militari dell’esercito israeliano e in sette aree civili, tra cui una città, cinque kibbutz e il festival musicale Supernova Sukkot Gathering uccidendo a sangue freddo, bruciando persone, sgozzandole e alcune portandole a forza nella loro roccaforte: la striscia di Gaza, quel lembo di terra palestinese stretto tra Egitto, Israele e il mare.
Il rabbino Burton L. Visotzky, professore di Midrash ed emerito di studi interreligiosi al seminario teologico ebraico d’America di New York, non intende arrendersi. Hersh Goldberg-Polin è suo cugino: un giovane di 23 anni, uscito di casa venerdì scorso per celebrare la fine delle lunghe settimane festività ebraiche e lo Shabbat, ma mai rientrato.
Di lui restano solo due messaggi inviati alle 8.11 del mattino di sabato ai genitori: “Vi voglio bene” e “Vi chiedo scusa”. E resta una foto sui social che lo vede ammassato dentro un rifugio.
Hersh era uno dei giovani partecipanti al festival musicale Supernova Sukkot Gathering, vicino il kibuz Re’im. Il giovane, secondo la ricostruzione della famiglia, quando si è reso conto dell’assalto ha cercato di fuggire e insieme agli amici si sono precipitati dentro un bunker che i miliziani di Hamas hanno assalito lanciando un grande numero di granate.
«Ad Hersh è saltato il braccio. Ha cercato di fermare il sangue con un improvvisato laccio emostatico e quando i guerriglieri di Hamas sono entrati nel rifugio, chiedendo ai sopravvissuti di alzarsi e camminare, anche lui l’ha fatto ed è stato catturato e preso in ostaggio».
La voce del rabbino è rotta, mentre racconta il dramma che la sua famiglia sta vivendo. Come è rotta la voce di Yoni Asher che non riesce a mangiare e dormire pensando alla moglie Doron e alle sue due bambine.
Non riesce a fermare le lacrime neppure la famiglia di David e Sharon davanti agli ambasciatori delle Nazioni Unite che hanno voluto fermarsi, durante il fine settimana, e invitare le famiglie degli ostaggi al Palazzo di vetro per ascoltare le loro voci. Parlano e scorrono sullo schermo le immagini dei rapiti: tanti, tanti bambini.
E assieme alle foto sorridenti ci sono quelle che è difficile guardare: mostrano corpi decapitati, bruciati, crivellati di colpi. La tragedia di Israele arriva nelle strade di New York, non solo con i cortei che si susseguono da giorni, ma con le foto che tappezzano pali della luce, fermate della metropolitana, le inferriate dell’Onu. “Riportiamoli a casa” è la frase che si scandisce e accompagna questi manifesti semplici.
Terrore, agonia, barbarie sono le parole che riecheggiano sulla bocca dei familiari delle vittime e dei rapiti, come in quella dell’ambasciatore israeliano e di tanti colleghi sconvolti dalla brutalità dell’attacco. Agonia, terrore, dolore sono i sentimenti che angosciano gli abitanti di Gaza. La voce di Leila, cacciata dalla sua casa dalle bombe che martellano la sua città da domenica, è disperata.
«Non troviamo acqua, cibo, medicine e l’esercito israeliano ci sta buttando ancora una volta fuori», dice la donna, mentre guarda anche lei corpi su corpi, colpiti brutalmente e seppelliti in fosse comuni.
Kayed lamenta la mancanza di acqua e i suoi bambini devono andare in ospedale per riuscire ad averne una bottiglia. Vorrebbe fuggire da Gaza, ma trovare una macchina o un mezzo di trasporto è impossibile. Resterà rischiando la vita. «Questa è una punizione collettiva che avviene in mezzo al silenzio del mondo», continua Leila.
L’Onu parla di tragedia umanitaria senza precedenti e chiede al governo israeliano più tempo prima dell’assalto di terra. Evacuare un milione di persone senza mezzi e con i valichi chiusi è impossibile e lunedì proprio l’agenzia Onu deputata agli aiuti umanitari nella Striscia ha dichiarato di non essere in grado di proteggere la popolazione.
Una delle domande ricorrenti di questa settimana di sangue è stata: da che parte stai? Parteciperai ad un corteo pro-Israele o pro-Palestina?
Frequentandoli entrambi la scelta è fatta: si sta dalla parte delle vittime, di chi sta soffrendo atrocemente per i morti, per i rapiti, per gli sfollati e si sta dalla parte della pace, mai come oggi necessaria e urgente.
Venerdì New York ha vissuto una giornata di massima allerta temendo attentati eppure il corteo palestinese di Time Square non ha registrato alcuna violenza e nessuna violenza è stata segnalata a Brooklyn dove a manifestare era il corteo Jewish Voices for Peace – Voci ebraiche per la pace.
«Abbiamo perso vite israeliane e palestinesi e vogliamo che il governo statunitense chieda un cessate il fuoco», domandano gli organizzatori, tutti ebrei.
Il rabbino Burton Visotzky spera che si giunga ad un accordo, dopo questi giorni crudeli in cui si è cercato di ripristinare una sorta di ordine per impedire ad Hamas di ripetere la barbarie.
«Nella mia fantasia mi auguro che, se anche Israele entrasse in guerra contro Hamas, si possa raggiungere un accordo con l’Autorità Palestinese in modo che palestinesi e israeliani possano vivere insieme in pace» dice Burton, auspicando una pacificazione oltre le polarizzazioni.