Dalla parte dei cittadini

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“Che il potere sia diviso. È meglio moltiplicare funzionari pubblici che non confidare solo ad alcuni un’autorità troppo temibile”. Potrebbero essere parole pronunciate ai giorni nostri, proprio nelle settimane nelle quali infuria una polemica sui rapporti tra politica e giustizia. E invece sono di Maximilien Robespierre, pronunciate nel lontano 1793. A parte l’applicazione che Robespierre fece del principio della divisione dei poteri, esso rimane valido, ed è alla base della struttura degli stati democratici. Ma quello che in Italia abbiamo sperimentato dagli inizi degli anni Novanta – con l’avvento di “Tangentopoli” -, è che non basta stabilire questo principio nella Costituzione e determinarlo attraverso le leggi e le procedure. Il funzionamento dei poteri e il loro equilibrio, infatti, dipendono dallo stato di salute di ciascuno dei poteri, e sono legati anche alla qualità degli uomini che li esercitano. Tangentopoli rivelò che la corruzione politica si era sviluppata oltre i limiti “fisiologici” – per così dire – tollerabili da un sistema. E questo perché i partiti avevano da tempo esaurito la spinta propulsiva e progettuale che li rese protagonisti del dopoguerra. Già a partire dalla metà degli anni Sessanta sarebbe stato necessario proporsi nuove mete, riscrivere i programmi politici, attingere più profondamente agli ideali fondativi: obiettivi tutti, in gran parte, falliti. A distanza di quasi tre lustri dall’inizio del fenomeno possiamo dire che la magistratura ha agito sulla base di fatti, ma che le colpe accertate di una parte della classe politica si sono ripercosse sul suo insieme, colpendo una dirigenza già debole politicamente, prima che giudiziariamente. Ma dobbiamo anche costatare che è lungo l’elenco di politici e amministratori che la stessa magistratura ha dovuto riconoscere, alla fine, innocenti, dopo averli coinvolti con eccessiva disinvoltura distruggendone la carriera. E talvolta tutto questo non è avvenuto a causa di erroriumani sempre possibili e comprensibili, ma per un atteggiamento – in alcuni magistrati – di pregiudizio negativo e di sospetto culturale, per un sentirsi investiti – direttamente dal popolo ma senza un mandato politico – di un compito purificatore: “La repubblica – è ancora Robespierre – non ha per sé altro che le virtù (…) esse sono l’appannaggio degli sfortunati e il patrimonio del popolo (…) I vizi invece sono circondati da tutti i tesori (…) sono scortati da tutti i talenti pericolosi, tenuti in esercizio per il crimine”. Questa alleanza tra una parte della magistratura e l’opinione pubblica prevalente ha dato origine a quello che potremmo chiamare “populismo giudiziario”; che ha avuto anche effetti liberatori, ma si è rivelato pericoloso perché, conferendo nei fatti un ruolo politico alla magistratura, intacca proprio quella distinzione tra i poteri sui quali si regge la democrazia e la stessa indipendenza del potere giudiziario. È su questo sfondo che va collocato il “fenomeno Berlusconi”, che sembra fatto apposta per catalizzare tutte le problematiche irrisolte del rapporto tra magistratura e politica. Sul suo capo, infatti, pendono ancora delle inchieste che affondano le loro radici negli anni Novanta, e ne conservano aperte le ferite. Ma due elementi determinanti differenziano il Cavaliere dalla classe dirigente processata nel decennio scorso: dopo essere stato scelto a larga maggioranza, con un voto fortemente personalizzato, dal popolo italiano, che lo ha messo dove sta, continua ad avere un forte consenso; e ha un progetto politico – sul quale si può concordare o meno, ma c’è – che una parte maggioritaria del paese sente come una risposta a sue reali esigenze. Ciò significa che Berlusconi è in grado di non farsi schiacciare dallamagistratura e, anzi, di portare avanti una battaglia che potrebbe arrivare a danneggiarla. Ed è una battaglia, come si può costatare dalle polemiche attuali, nella quale vengono usati gli argomenti degli anni Novanta: da una parte l’accusa di uso politico della magistratura, dall’altra l’accusa di utilizzare la forza politica per bloccare la magistratura. In questa situazione viene minata la fiducia verso i poteri che deve stare alla base della democrazia; ogni decisione politica e ogni azione giudiziaria si espongono al sospetto, dando plausibilità a critiche che, in condizioni normali, non dovrebbero neppure essere pensate: quando il presidente del Consiglio si oppone alle rogatorie internazionali o al mandato di cattura europeo, lo fa per motivi politici e giuridici sostanziali, o per difendere se stesso? Quando i magistrati agiscono contro il presidente del Consiglio lo fanno sulla base di prove, oppure di sospetti orientati politicamente? Queste domande, teoricamente inammissibili, sono parte integrante del dibattito quotidiano. E una democrazia nella quale si diffondono queste domande è una democrazia a rischio. È venuto il momento in cui le parti in causa percepiscano il pericolo che corre l’intera società; è ora che comincino a ragionare dal punto di vista dell’unità del corpo sociale, non da quello dei frammenti. In una parola, è ora che assumano il punto di vista dei cittadini e del loro bisogno di giustizia. In questo senso, alcuni passi appaiono necessari e non rimandabili. È interesse primario del paese che il presidente Berlusconi sciolga il nodo del “conflitto di interessi” applicando una delle soluzioni già adottate in altri paesi democratici; e che accetti il proseguimento delle inchieste – purché condotte con lealtà e senza accanimento – che coinvolgono le sue aziende. Questo passo dev’essere compiuto, per rispetto dei cittadini e delle istituzioni e per porre al di sopra di ogni sospetto le decisioni del governo. E dovrebbero cessare gli attacchi alla magistratura che assumono, agli occhi dei cittadini, il sapore dell’intimidazione. E, dall’altra parte, vanno abbandonati l’uso strumentale del “conflitto di interessi” e la pretesa che Berlusconi faccia più di ciò che è chiesto ad altri capi di stato o di governo. Dovrebbe finire l’attribuzione di uno scopo privato od affaristico ad ogni atto del governo – è necessario fare un elenco degli “affari” conclusi nell’ambito del centro- sinistra nella precedente legislatura? -, nella presunzione, del tutto infondata, che la “nobiltà politica” stia da una sola parte. E si ponga fine alla strumentalizzazione politica delle iniziative che la magistratura – nella sua autonomia – ritiene di intraprendere. Come pure va rivisto il giudizio e va tolto il fango a suo tempo gettato sull’intera classe politica – in particolare sulla Democrazia cristiana – e sulla sua opera di governo, restituendo agli onesti il loro onore politico. C’è poi un terreno sul quale governo e opposizione possono collaborare efficacemente, nel rispetto dei diversi ruoli: quello della riforma della giustizia. Su molti punti utili ai cittadini esistono ampie possibilità di convergenza, suggerite anche dall’esperienza professionale maturata da vari politici delle due parti: una maggiore velocità nell’assicurare la giustizia, la garanzia dell’efficienza dei magistrati, la certezza nell’interpretazione delle norme. Proprio per la gravità cui è arrivato, lo scontro sulla giustizia può diventare occasione per un rinsavimento e un cambiamento dello stile politico. EFFICIENZA DELLA MAGISTRATURA Intervista ad Alfredo Mantovano, sottosegretario al Ministero dell’Interno, con delega alla Pubblica Sicurezza On. Mantovano, la coalizione di centro-destra ha sollevato obiezioni, in merito al recente “mandato di arresto europeo”, che andavano al di là dell’occasione contingente: può spiegarci la posizione del governo? “Mi sembra necessario capire dove vuole andare l’Unione europea. Dal punto di vista logico viene prima l’individuazione, condivisa, dei beni da tutelare; poi l’individuazione di sanzioni comuni a protezione di questi beni; e successivamente la definizione di una procedura comune per applicare quelle sanzioni. Il mandato di arresto europeo rientra nel terzo passaggio di questo iter logico, senza che siano stati approfonditi i primi due aspetti. “L’Unione europea deve riflettere e decidere se dobbiamo procedere a ritmi elevati verso una armonizzazione degli ordinamenti, e quindi delle sanzioni e delle procedure; oppure se si deve individuare un nucleo essenziale comune, lasciando a ciascuno stato le sue specificità. In ogni caso, i problemi devono essere approfonditi nei parlamenti dei singoli stati, che sono l’espressione della sovranità popolare, e non si deve imporre un testo calato dall’alto”. Quanto pesa il tema del “conflitto di interessi” del presidente del Consiglio nelle decisioni prese dal governo? “Non pesa assolutamente nulla. Tutti gli argomenti sollevati al riguardo sono inconsistenti. Per quanto riguarda la vicenda del mandato europeo, ad esempio, la convenzione contiene una norma che stabilisce che il mandato non si applica se il destinatario gode di qualche forma di immunità. È il caso del presidente Berlusconi, in quanto parlamentare”. Quali sono i punti qualificanti del progetto del governo sulla riforma della giustizia? “Ne sottolineerei uno in particolare. La giustizia, oggi, vive una grave crisi soprattutto sul piano dell’efficienza. È inammissibile che le cause civili siano trasmissibili agli eredi e che quelle penali durino anche sei anni. Certamente il problema investe le responsabilità del governo e del parlamento, ma anche della magistratura, che non può più ritardare un serio meccanismo che garantisca sulla qualità e sulla quantità del lavoro svolto dai magistrati. La magistratura è uno dei pochi settori nei quali è possibile lavorare 12 ore al giorno o 12 ore al mese, e prendere lo stesso stipendio.Si deve introdurre qualche meccanismo per evitare che questi squilibri si verifichino” Che cosa pensa dell’idea di istituire una separazione di carriera tra magistrati che giudicano e magistrati che accusano? “Nella risoluzione approvata dal Senato il 5 dicembre si parla di distinzione di funzioni, che è una cosa diversa dalla separazione delle carriere, e che vuole evitare sovrapposizioni fra ruoli che sono oggettivamente diversi, pur mantenendo i magistrati in un unico corpo giudiziario. Che il magistrato cada sotto l’influenza dell’esecutivo non lo vuole sicuramente nessuno: sia il ministro della giustizia che il presidente del Consiglio sono stati molto chiari al riguardo”. Ma qual è, allora, il punto nodale di disaccordo col centrosinistra? “Questo lo vorrei capire anch’io. La risoluzione del Senato contiene, nella sua parte dispositiva, punti che erano presenti nella bozza della bicamerale; o che sono stati oggetto, per anni, di richieste da parte dell’Associazione nazionale magistrati: penso, ad esempio, alla temporaneità degli incarichi direttivi; quanto alla valutazione del lavoro dei magistrati, nella precedente legislatura un disegno di legge del ministro Flik andava in questa direzione; quindi credo che la violenta reazione dell’opposizione su questo punto sia dettata più da ragioni di contingente strumentalità politica, che da una reale non condivisione dei contenuti”. GIUSTIZIA: POTERE E SERVIZIO Intervista a Luciano Violante, presidente del gruppo parlamentare dei Ds alla Camera On. Violante, una delle perplessità riguardanti il mandato di cattura europeo, e avanzata non solo nel centro-destra, riguarda la possibilità che magistrati europei dipendenti dal proprio governo usino il mandato per colpire avversari politici italiani: è un timore plausibile? “In tutti i paesi nei quali il pubblico ministero dipende dall’esecutivo, egli non è un impiegato del governo, ma ha speciali garanzie. Per esempio, in Francia, attualmente il ministro non può più intervenire nei processi penali come poteva fare prima. Dove esiste la discrezionalità dell’azione penale, non è il governo che stabilisce le priorità, che sono invece scelte attraverso precisi protocolli. Tutti e 14 gli stati dell’Unione europea si fidano dei nostri giudici, che non sono controllati dall’esecutivo; in Italia c’è chi non si fida dei giudici europei, perché dipendono dall’esecutivo; ma allo stesso tempo vorrebbe che i nostri giudici dipendessero dal nostro esecutivo… Mi pare un paradosso”. Nelle polemiche di questo periodo è stato spesso agitato il “conflitto di interessi” del presidente del Consiglio: quanto pesa questo argomento quando si parla di giustizia? “Siamo l’unico paese in cui il presidente del Consiglio è imputato di vari reati, e anche i suoi amici e vicini; ma questa rischia di essere una polemica che abbassa il livello della riflessione. Io penso che uno degli interventi da fare è di stabilire i criteri per le priorità nell’esercizio dell’azione penale. Oggi è del tutto accidentale che un giudice scelga un fascicolo o un altro. Credo invece che sia utile che i capi degli uffici giudiziari comunichino al Consiglio superiore della magistratura quali saranno i criteri a cui si atterranno – in relazione alle specificità locali – nella scelta delle priorità di esercizio dell’azione penale. Il Consiglio superiore della magistratura comunicherà questi criteri alle commissioni giustizia della Camera e del Senato, le quali potranno esprimere un parere – non vincolante naturalmente – in seguito al quale il Consiglio potrà decidere in piena autonomia. Credo che costruire questo circuito sarebbe utile ai cittadini”. Altro problema sul tappeto è quello dell’accusa, più volte portata dal presidente Berlusconi ad alcuni magistrati italiani, di usare la giustizia per scopi politici: come risponde? “Non si possono trascinare accuse generiche; non si può dire che esistono gruppi di magistrati che usano la giustizia per finalità politiche: si dica chi sono e si agisca attraverso misure disciplinari contro di loro. In realtà io penso che ci siano gruppi di parlamentari che usano la politica per condizionare la giustizia: in Italia c’è una “questione impunitaria” e questa è la cosa veramente grave. “Nella giustizia ci sono due profili: uno di potere e uno di servizio. Io ho l’impressione che tutte le polemiche – in particolare quelle che il centro-destra sta costruendo, per interessi non sempre nobili – contro la magistratura, si riferiscano non alla dimensione della giustizia come servizio, ma alla dimensione della giustizia come potere; ma il problema di milioni di cittadini italiani riguarda il servizio, non il potere, il quale rimane del tutto ininfluente sulla gestione quotidiana del servizio. E tra l’altro si nascondono così i reali scompensi nell’amministrazione della giustizia”. Quali provvedimenti ritiene più urgente mettere in atto nell’attuale situazione della giustizia italiana? “Tutto ciò che serve ad accelerare i processi, nella garanzia dei diritti delle parti in causa, va spinto al massimo. Oggi abbiamo dei tempi che, per quando accorciati rispetto al passato, sono ancora troppo lunghi: pensiamo ai processi del lavoro, a quelli per l’infortunistica stradale. Non è un problema solo nostro, ma di tutti i Paesi avanzati. “Un altro, tra i problemi più gravi del cittadino, è la imprevedibilità delle conseguenze giuridiche dei propri comportamenti: l’impresa, la famiglia, il singolo cittadino spesso, non sono in grado di conoscere le conseguenze giuridiche delle proprie scelte. C’è una grande incertezza legislativa e una grande incertezza applicativa delle norme. Molte imprese multinazionali sono andate via dall’Italia perché non avevano sufficiente certezza dell’interpretazione del diritto. Questo è un danno grave per il nostro paese”.

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