Dalla morte alla vita
Da una giovane donna somala, da più di un mese clinicamente morta, nasce una bimba che prende il suo nome. Un simbolo.
Per una mamma che muore una bambina che nasce. Non è una storia di malasanità, una delle tante raccontate in questi giorni per le quali sembra che prima di andare in sala parto bisogni raccomandare l’anima al Creatore. È invece la storia di una mamma che da agosto era in uno stato di morte cerebrale, in seguito ad un tumore, e che è stata tenuta in vita da un respiratore artificiale. Normalmente, quando l’elettroencefalogramma è piatto, la procedura vuole che il paziente venga tenuto sotto osservazione per sei ore, prima di staccare definitivamente i macchinari. Ma nel caso di Idil, la donna somala protagonista della vicenda, i medici come tutti sappiamo hanno deciso di aspettare.
«Ci eravamo proposti come traguardo – afferma la dottoressa Evelina Gollo, primario di anestesia e rianimazione al sant’Anna di Torino – di mantenere artificialmente in vita Idil fino alla 28esima settimana di gestazione. Lei si deteriorava, ma proprio fino a quel termine ha resistito». Quasi una lotta fino alla fine per riuscire a far vivere sua figlia, ma nessun accanimento terapeutico, come assicura la dottoressa che ha seguito la vicenda sin dall’inizio: «Assolutamente no. C’era una vita da salvare, era un dovere farlo».
E così col parto cesareo è venuta alla luce la piccola che pesa appena 800 grammi, non è fuori pericolo, ma sta bene e respira autonomamente. Quasi logico che prendesse il nome della madre: Idil, cioè “bellezza e compiutezza dell’essere”. Una giornata speciale per il papà, Issa Muhyaddin, diviso tra la gioia per la nuova vita e il dolore per la perdita della giovane moglie. Ma rimane la certezza che si è fatto tutto quel che si poteva, per la madre e per la figlia.
Le due Idil sono un simbolo della vita, che nasce dalla morte, per poi dare a sua volta altra vita. Una verità che la cultura mediatizzata d’oggi spesso perverte, perché cancella uno dei due termini, la morte.