Dalla Libia a Trento
Idriss è uno spilungone affusolato e nero con un’aria pensierosa e disarmata allo stesso tempo. Con le braccia alzate tocca senza difficoltà la traversa di una porta di calcio. Il padre è morto quando era piccolo e lui ha seguito la mamma, una berbera, in Libia. Una vita non facile ma dignitosa. La madre si risposa, Idriss lavora come falegname e vive con il padre adottivo e un fratello nato dalla nuova unione. Un anno fa la guerra voluta dall’Occidente contro Gheddafi. La sua casa crolla sotto le bombe. Entrambi i genitori muoiono. Idriss e suo fratello Alì fuggono, ma decidono di separarsi per non condividere la stessa sorte. E così è stato. Idriss con una carretta del mare riesce a raggiungere Lampedusa e chiama al cellulare il fratello mentre ancora cerca di raggiungere la Tunisia sotto i bombardamenti. Qualche giorno dopo Idriss lo richiama ma il fratello non risponde, e non risponderà più. Pensa sia morto. Da Lampedusa, via Manduria, Idriss è trasferito a Trento.
Come lui ne sono arrivati 300. Non tutti originari della Libia, ma immigrati nella stessa Libia o in Egitto, per cercare lavoro, provenienti dalla vasta fascia dei Paesi del Sub Sahara.
Idriss, come tutti gli altri, presenta domanda a Verona per ottenere il riconoscimento della protezione internazionale, lo status di rifugiato, ma si esprime in un dialetto berbero che non è ben compreso dalla traduttrice. La domanda viene respinta perché non è stato giudicato veritiero il suo racconto. La delusione e la vergogna del diniego, lo straniamento di una terra lontana, la disperazione della solitudine, lo portano a disturbi del sonno e dell’alimentazione.
Più di un anno fa 300 profughi libici sono destinati a Marco di Rovereto, nel Trentino. Nel sito di un’ex polveriera è costruito, in fretta e furia, un campo con tanto di pali e reti di recinzione. Annamaria Manna, un’insegnante di tedesco che ben conosce i pregiudizi razziali della storia, apprende la notizia dal marito che lavora nei pressi e gli descrive le facce smarrite dei giovani, dai 18 ai 32 anni, che sono sopravvissuti alla guerra.
«Provavo dei forti sentimenti di angoscia ‒ racconta Annamaria ‒ perché, non credo di esagerare, un giorno si parlerà di una forma di genocidio consumato sotto i nostri occhi nel mar Mediterraneo. Non potevamo essere indifferenti». Annamaria non ci sta, chiama, d’accordo con il marito Mario, alcune sue amiche dei Focolari e scrive una lettera, anche se non è una cattolica praticante, in cui dice: «Dov’è il prossimo, se non qui?».
Armida, Claudio, Stella, Elisabetta, Mimmo, Concetta, Antonio, Flo, Ilaria e tanti altri raccolgono il suo invito. Alcuni dei membri dei Focolari con l’Associazione Acav, sollecitati anche dal centro informativo per l’immigrazione (Cinformi) dell’assessorato alla Solidarietà internazionale e alla convivenza della Provincia autonoma di Trento, si mettono in moto per agire una volta passata l’emergenza della prima accoglienza.
I 300 provenienti dalla Libia, infatti, sono smistati in tanti paesini della provincia e, mentre nei piccoli centri l’inserimento è abbastanza riuscito, in città è più complicato. «A Trento ‒ racconta Stella Bozzarelli, dei Focolari ‒ trenta rifugiati sono collocati in vari appartamenti della Provincia, ma nessuno sa dove risiedono. Li abbiamo cercati e trovati per conoscerli e assicurare la nostra vicinanza».
Una riunione informale tra i Focolari, il Centro Astalli, il Cinformi e il parroco della chiesa di San Giuseppe, stabilisce in che direzione procedere e come creare una rete di solidarietà.
Vogliono promuovere una cultura dell’accoglienza e della persona contro la logica dei respingimenti, coinvolgono altre associazioni per fare gioco di squadra: la Caritas, il Forum trentino per la pace, Migrantes, Limen, la circoscrizione di Trento San Giuseppe e Santa Chiara. Fare rete contro la paura, le diffidenze, l’indifferenza perché solo insieme si può. «Lo scopo è ‒ spiega Elisabetta Bozzarelli, direttrice di Acav ‒ unire le associazioni per far vedere la bellezza della solidarietà».
Ma la prima richiesta è quella dell’amicizia, della cura dei legami e delle relazioni. Annamaria con la collega Rita, nei giorni liberi dalla scuola, avviano un corso di italiano. Imparare la lingua e conoscere la cultura del luogo è la prima tappa necessaria per contribuire a inserirli nella nuova società. Per alcuni, come Idriss, l’italiano è la prima lingua che impara a leggere e scrivere. Molti non hanno mai visto un cavallo, una mucca. Figurarsi un orso. Sanno tutto, però, su cammelli, scorpioni e serpenti.
Dall’ondata migratoria dalla Libia in Italia si scopre che molti lavoratori libici in realtà provenivano da Mali, Costa D’Avorio, Sudan, Egitto e persino dal Bangladesh. A volte sono immigrati costretti a partire per le coste italiane dalle milizie di Gheddafi che utilizza i lavoratori stranieri presenti in Libia come “bombe umane” contro l’Occidente.
Corsi di italiano, momenti formativi, scambio di opinioni, perfino una cena natalizia, sono i primi passi per favorire la conoscenza e l’apertura reciproca. Il tessere relazioni continua con il regista Vittorio Curzel, giornalista e docente universitario, che ha presentato due suoi documentari sui drammi della guerra, Nach Dresden, e della migrazione trentina nella Prima guerra mondiale, Fino a quando, a un pubblico di 30 libici. Sono occasione per una condivisione di esperienze, di percorsi comuni nella storia e nell’oggi che ha affratellato al di là di ogni previsione.
Alcuni dei profughi per ragioni politiche, tribali, familiari, non possono più rientrare nei propri Paesi di origine. Fino alla fine del 2012 è stato prorogato lo stato di emergenza per motivi umanitari. Dopo nessuno sa come andrà a finire, nessuno ne parla. Dal 2013 servirebbe un nuovo decreto di proroga ma non ci sono i fondi dello Stato.
La novità è che alcuni di loro hanno trovato la possibilità di collaborare come boscaioli per la stagione estiva. Un mestiere duro che nessuno vuole più fare. Una cooperativa li ha coinvolti anche con un corso di formazione. Uno dei problemi è la distanza. Non si può andare e tornare in giornata da Trento ai luoghi di lavoro nelle valli e nei boschi. Così Ilaria ha pensato di prestare la sua casa di vacanze ai giovani immigrati. «Mancavano anche gli scarponi per boscaioli ‒ racconta Annamaria Manna ‒, un numero 42. In un giorno ne sono arrivati tre. Si vede che ancora non abbiamo perso l’abitudine a dare!». Se le cose sono fatte bene, i trentini non aprono solo la porta ma anche il portone e il cuore. Anche gli amici musulmani dei Focolari hanno cucinato piatti tipici e condiviso la loro storia di emigrazione.
Nel frattempo, tre fiocchi, segno di speranza, due azzurri e uno rosa, per tre bimbi nati a Trento da coppie di immigrati dalla Libia.
Resta il dramma di Idriss, Aboubacar, Tidjane, Sekou, Amidou, Nouhoun, Adil, Adam e tanti altri. Per loro, se sarà assente la comunità civile, si apriranno le porte della clandestinità e della criminalità.