La Chiesa Indiana e gli intoccabili. La richiesta di vescovi dalits
Intoccabili, fuori casta, paria, harijans e dalit. Sono i nomi con i quali, in India, vengono designati i milioni di abitanti del sub-continente che appartengono al gruppo più basso della struttura sociale di quella parte di mondo. Ad essi, tradizionalmente, sono assegnati i lavori considerati impuri (per esempio la raccolta di rifiuti o la sepoltura dei morti), molti villaggi indiani hanno ancora una struttura per la quale la zona assegnata a loro è al di fuori del villaggio propriamente detto ed hanno pozzi a cui attingere l’acqua che solo loro possono usare.
La questione che determina tutto è la distinzione fra puro ed impuro. Nella tradizione della vita sociale del sub-continente, infatti, questa è una delle chiavi di lettura fondamentali e, soprattutto, quella che determina la struttura sociale. Azioni, momenti del tempo o fasi della vita, professioni o altro, quando sono considerati impuri contaminano le persone che li compiono e, a loro volta, quelli che hanno rapporti sociali con loro. Per questo le discriminazioni sperimentate durante i millenni da queste persone sono spesso fra le più crudeli ed impensabili. E tutto questo, in modo velato ma reale, continua ancora oggi, sebbene l’articolo 17 della Costituzione indiana reciti che «l’intoccabilità è abolita e la sua pratica in ogni forma è proibita. L’applicazione di qualsiasi disabilità derivante dall’intoccabilità sarà un reato punibile dalla legge».
Non stiamo parlando, come spesso si pensa in Europa, di una minoranza. Sono milioni i dalit, come vengono chiamati oggi i fuoricasta che Gandhi aveva soprannominato harijans (figli di Dio). Per la precisione si aggirano attorno al 16% circa del miliardo e quasi quattrocento milioni di persone che popolano l’India. Per avere un’idea concreta: circa 22 milioni di persone, un numero superiore a un terzo della popolazione della nostra Italia.
Ovviamente negli ultimi decenni molto si è fatto e tanto si sta cercando di fare, pur fra molte resistenze per promuovere queste classi sfruttate e discriminate, ed assicurare dignità umana e pari diritti. Nonostante, infatti, che ai dalit (termine che significa spezzato, proprio a causa della crudeltà delle discriminazioni che subiscono) siano riservati posti nelle università, nei luoghi di lavoro, in particolare quelli statali, ecc., lo stigma resta.
Dalit era anche Bhimrao Ambedkar, padre della costituzione indiana, statista e avvocato di alto profilo, che negli anni Cinquanta decise di lasciare l’induismo per il buddhismo nella speranza di trovare maggiore dignità. Milioni di dalit lo hanno seguito e hanno dato vita al neo-buddhismo, corrente tipica dell’India del XX e XXI secolo. Ma tutti sanno in India che chiunque segua questo nuovo filone alla sequela del Buddha appartiene a questo gruppo sociale. Dunque, nulla cambia nella percezione sociale di queste persone.
Anche fra i cristiani la percentuale dei dalit è molto alta. Soprattutto nelle diocesi del sud – negli stati dell’Andra Pradesh, del Tamil Nadu e del Karnataka, oltre che in alcune parti del Maharashtra – molti cristiani e, in particolare, molti cattolici appartengono a questo gruppo sociale, presente comunque anche in altre parti del Paese. Le chiese, sia cattolica che protestanti, da decenni lavorano per la promozione sociale e l’acquisizione dei diritti.
All’interno della Conferenza Episcopale Indiana, una delle commissioni più vivaci ed impegnate è proprio quella che si occupa di questi gruppi e di quelli tribali, anch’essi profondamente discriminati in varie parti del Paese. Nel corso dei decenni si è anche sviluppata una corrente teologica, la teologia dalit molto impegnata sia in India come pure nel contesto asiatico e, spesso anche in ambienti internazionali, dove questa riflessione e rilettura evangelica è considerata come una delle cosiddette teologie contestualizzate emergenti.
Accanto a questo non si possono ignorare, comunque, altri aspetti senza dubbio dolorosi. Le implicazioni sociali della problematica castale e della intoccabilità, va, infatti, ben al di là delle religioni di appartenenza e resta trasversale a tutto il sub-continente indiano. Da vari decenni, per esempio, si alza sempre più forte la voce di cattolici dalit che chiedono la scelta di vescovi all’interno delle loro comunità. In certi casi, infatti, le comunità cattoliche appartengono quasi interamente a questo gruppo sociale, ma sono animate e amministrate da pastori provenienti da caste più alte e che mancano della necessaria sensibilità nei confronti di questi gruppi sfruttati da sempre.
Allo stesso tempo, la presenza di vescovi di estrazione dalit ha creato problemi in altre parti del Paese, dove i cristiani provengono da diverse comunità. Anche recentemente, la nomina di vescovi nel sud India ha creato disagio in alcune diocesi con manifestazioni anche animate. I dalit cattolici hanno chiesto, infatti, per alcune diocesi, dei pastori appartenenti al loro gruppo sociale e quando la nomina del vescovo è arrivata, essa ha suscitato proteste, anche di giorni.
Nello stato del Tamil Nadu, che conta 18 diocesi cattoliche con una netta maggioranza dalit, solo una è guidata da un vescovo di questo gruppo sociale. Il Dalit Christian Liberation Movement ha così lanciato una protesta per ottenere un ripensamento delle autorità ecclesiali. Migliaia di cristiani hanno bloccato parrocchie anche in altre diocesi dove la sede episcopale è vacante. Le proteste desiderano arrivare fino a papa Francesco e sono immagine non solo di una Chiesa che soffre profondamente per questa ferita, ma di tutta una società nella quale Gandhi, giustamente, aveva definito l’intoccabilità come un peccato grave.