Dal Venezuela al Cile: storie di migranti
Bastano pochi dati per capire perché sono così tanti coloro che lasciano il Venezuela e affrontano viaggi allucinanti alla ricerca di una vita minimamente degna. A partire da venerdì scorso un dollaro vale 4,18 bolívar, invece di 4.180.000. Il governo del presidente Nicolás Maduro ha tolto sei zeri alla divisa venezuelana. Ma non era la prima volta. Nel 2018 ne aveva tolti cinque e nel 2007 il presidente Chávez ne tolse altri tre.
Quattordici zeri in meno in tredici anni, parlano di una crisi immane. Un Paese dove ormai più del 90% della popolazione è povera ed il 75% vive nell’indigenza, cioè non si alimenta a sufficienza. Manca tutto. Pensioni da un dollaro al mese, salari intorno ai due dollari o meno. La benzina sussidiata è l’unica chance per chi vive di stenti, ma per ottenerla si fa una fila di almeno 24 ore; quella non sussidiata è ancora a buon mercato, mezzo dollaro al litro. Prima con la stessa cifra si faceva il pieno, ma pochi se la possono permettere. Con un’inflazione al 1.600% è difficile prevedere cosa succederà. Fatto sta che trovare alimenti o prodotti di ogni tipo è difficile. Ci si arrangia, si vende di tutto per sbarcare il lunario.
La storia recente di due sorelle, Carmen e Alhelí, rispettivamente di 28 e 26 anni, è legata a questa realtà. Una famiglia non proprio unita: il papà chissà dov’è e una mamma poco presente, oltre alle due sorelle, due fratelli ed un fratellastro. Alhelí ha due bambini di 5 e 7 anni, del marito meglio non saperne.
Visto come stavano le cose, Carmen una carriera la cercò prima nell’esercito, dove però non si verificò l’ascesa sociale sperata. Poi la crisi si accentuò giorno dopo giorno, con i soldi che si trasformavano in carta straccia. Al punto che la metropolitana di Caracas decise di lasciare che tutti viaggiassero gratis per evitare il costo di gestire le montagne di cartamoneta dei biglietti.
A Carmen qualcuno parlò bene del Cile. Mise da parte qualche soldo e decise di emigrare. Farlo legalmente significava mettersi nelle pastoie burocratiche di un governo per il quale l’emigrazione è prova del suo fallimento. E poi bisognava “ungere” più di qualche ingranaggio corrotto. Prima arrivò fino alla frontiera con l’Ecuador, che attraversò in modo avventuroso. L’itinerario continuò in Perù, bus dopo bus, per poi arrivare in Cile, poco oltre la frontiera, a Iquique. Nella mente di Carmen una sola idea: trovarsi un lavoro e poi far venire Alhelí, con la quale ha sempre avuto un legame speciale. Le avevano suggerito un contatto: «Vai da questa amica mia, lei ti aiuterà». Ci arrivò in piena notte, stanca morta e affamata, dopo otto giorni di viaggio in condizioni precarie, quasi senza mangiare. Le restavano in tasca 30 mila pesos cileni (meno di 40 euro). La accolsero e ci fu tempo solo per mettersi a letto e dormire.
Ma la mattina seguente scoprì con orrore che era finita in una casa di prostituzione. Per tre giorni cercarono di convincerla a iniziare il “mestiere”. Lei si oppose inflessibile. Le tolsero quasi tutti i soldi che aveva e riuscì a conservare solo i documenti. Nella casa c’erano altre donne: erano sorvegliate e per fare le compere le portavano tutte con loro, per non lasciarle sole. Grazie a una svista, durante una delle uscite ne approfittò per dileguarsi. Addio valigia e vestiti, con quello che aveva indosso andò alla polizia, dove si autodenunciò, che era venuta per cercare lavoro, e raccontò quanto aveva visto.
Prove di un delitto non ne aveva, però. I poliziotti le diedero un consiglio: meglio lasciare la città per non finire nelle mani di qualche sfruttatore. I poliziotti le pagarono il viaggio di 1.400 km fino a La Serena, dove pure conosceva qualcuno. Questa volta andò bene, ma furono settimane dure. Carmen però è tenace ed in poco tempo cominciò a lavorare e a potersi fittare un appartamento. Poi mandò aiuti alla sorella per farla arrivare in Cile. Le notizie dal Venezuela erano tristi: fame, miseria e violenza. Alhelí fece lo stesso itinerario, solo che non era semplice entrare come turista con due bambini, per cui dovette entrare illegalmente attraversando il deserto, di notte per evitare le pattuglie che sorvegliano la frontiera col Perú.
Ci raccontano la loro storia in un momento duro. Alhelí ha ancora difficoltà per mantenersi. Sta regolarizzando la sua posizione, grazie alla sorella ha trovato una casetta ed all’entrata ha messo su – con soldi prestati – un gazebo fast food. Ma fa fatica a gestire i figli e l’attività, la sua salute non è ottima. Scopriamo che la casa è priva di mobili, non ha un frigo né una lavatrice, appena i letti usati anche come tavoli. I bambini vanno all’asilo ed a scuola, ma non riescono a stare al ritmo del programma che seguono in Dad con un cellulare, per via della pandemia. Il governo cileno a suo tempo aveva aperto le porte ai venezuelani, ma per ragioni politiche, senza che ciò abbia comportato nessuna iniziativa di integrazione.
Ci si guarda tra coloro che ascoltano la storia delle due sorelle e parte una catena di solidarietà che in pochi giorni convoglia nella loro casa gli elettrodomestici necessari, una cucina, alimenti, gas, indumenti, lenzuola, coperte, asciugamani, un ipad per seguire le lezioni…
Per la prima volta dopo mesi Alhelí sorride. Mentre le aiutiamo a montare tutto, a Santiago sfila una manifestazione contro i migranti organizzata da gruppuscoli xenofobi. Viene da chiedersi: ma quale mamma, quale papà non farebbe lo stesso per i propri figli?
Non commentiamo la notizia. Preferiamo stare con i bambini, per togliere dai loro occhi immagini angosciose e produrne altre che li facciano sorridere. Non è difficile.