Dal trono allaltare
Nossa Senhora do Monte è un piccolo grazioso santuario di Madera, arcipelago portoghese di origine vulcanica. Lo si raggiunge in auto o più comodamente in funivia, scoprendo dall’alto uno dei panorami più suggestivi, con la capitale Funchal (dalla parola funcho, che in portoghese significa finocchio, pianta molto presente nell’isola), che nel XVI secolo fu importante punto di approdo per le navi dirette alle Indie e al Nuovo Mondo. Una cappella di questa chiesa mariana ospita la tomba di Carlo I d’Asburgo, l’ultimo sovrano dell’immenso impero austro-ungarico andato in disfacimento con la Prima guerra mondiale, morto in esilio a Madera nel 1922: una figura che molti hanno cominciato a conoscere con ammirazione solo dopo la sua beatificazione avvenuta nel 2004.
Non so quanti, tra gli stessi veneziani, sono al corrente che durante quel tremendo conflitto – da lui non voluto ma ereditato –, la città lagunare scampò a un bombardamento che ne avrebbe fatto scempio, solo per la ferma volontà di questo sovrano “nemico”, il quale proibì l’attacco aereo alle città italiane non fortificate, tra cui appunto Venezia. Non solo, ma nel corso delle operazioni belliche il giovane imperatore d’Austria e re d’Ungheria proibì l’uso dei gas letali, contestando l’intenzione degli alleati tedeschi di adoperarli sul fronte orientale. E si batté anche contro l’impiego dei sottomarini per colpire le città nemiche che si affacciavano sull’Adriatico. La sua azione per limitare il più possibile gli effetti nefasti dell’inutile strage, come fu definita dal papa Benedetto XV, rivela in lui presente in sommo grado quella che Tommaso d’Aquino chiama la virtù della prudenza militare, ossia la capacità di scegliere in guerra le soluzioni più atte a mitigarne gli orrori. In realtà, all’epoca, Carlo fu l’unico capo di Stato a sostenere gli sforzi per la pacificazione intrapresi dalla Santa Sede.
Osteggiato e incompreso dagli altri governanti, blandito dalla massoneria internazionale, abbandonato dai più stretti collaboratori, tacciato di essere inesperto stratega e succube di una moglie italiana – Zita di Borbone-Parma –, che avrebbe peraltro tradito con una misteriosa amante, fu al contrario amato dal suo popolo, dalla gente comune, dai soldati con cui condivideva disagi e pericoli. Un uomo oggetto di così contrastanti sentimenti poteva essere solo un santo, uno diventato, sulle orme di Cristo, segno di contraddizione. E modello di santità Carlo I d’Asburgo è ora per la Chiesa universale, dopo un lungo iter servito a dissipare ogni ombra e a riconoscere invece le virtù eroiche del personaggio. Non a caso, proprio quando gli Stati dell’Unione europea hanno omesso di inserire nella Convenzione il dovuto riferimento alle radici cristiane della nuova Europa, la Chiesa invita a guardare a una figura che ha raccolto l’eredità di quel sacro romano impero che aveva unificato il Vecchio Continente col vincolo della fede cristiana.
Dalla mole enorme di documenti utilizzati per il processo canonico, emerge l’identikit di un uomo saggio, ispirato e lungimirante, instancabile promotore di bene e di pace per i popoli che sentiva essergli stati affidati da Dio, nonché sposo e padre esemplare, capace di rinunciare anche al trono legittimo pur di evitare una inutile guerra civile. Un sovrano che, mentre si sforzava di tutelare i diritti della Chiesa, far osservare le sue leggi e promuovere l’evangelizzazione del suo popolo (senza trascurare i soldati al fronte e i prigionieri di guerra), nutriva profondo rispetto anche per le confessioni non cattoliche e non cristiane presenti nell’impero. E che non temette di diventare impopolare presso una parte dell’esercito, vietando un’usanza in contrasto con la morale cristiana come il duello. Se fin dall’infanzia s’era prodigato per i bisognosi, da imperatore elaborò un programma sociale completo. Primo al mondo a nominare un ministro per gli Affari sociali, s’impegnò nella tutela dei giovani, nel diritto di famiglia e in quello del lavoro, nella previdenza sociale e nel progetto di Camere del lavoro: iniziative le cui strutture fondamentali permangono tuttora.
Ma troppo violenta fu la tempesta abbattutasi sull’impero austro-ungarico, e troppo breve il suo regno, perché fosse evitabile il fallimento. Fra l’altro, se avesse potuto conservare il trono, Carlo avrebbe introdotto nella Costituzione una modifica che riservasse al solo popolo la responsabilità di dichiarar guerra o di trattare la pace: si rendeva conto infatti che la guerra moderna, rispetto a quella di un tempo condotta mediante eserciti mercenari, coinvolgeva irrimediabilmente tutti, anche le popolazioni inermi. Ed era convinto che un popolo, attaccato ingiustamente, si sarebbe comunque difeso, ma anche che col suo buon senso avrebbe saputo allontanare lo spettro di un conflitto.
Purtroppo l’incalzare degli eventi non permise all’imperatore di attuare questa audace innovazione. Come irrealizzato rimase il suo sogno più ambizioso: fare delle multiformi componenti dell’impero una fraternità di popoli, le cui diversità non fossero causa di attrito. La sua stessa consuetudine di prendere le decisioni più importanti davanti all’Eucaristia e di riceverla quotidianamente, senza rispetti umani, perfino durante le operazioni belliche, si spiega con l’attrazione per questo che è per eccellenza il sacramento dell’unità, il cui fine è appunto fare di molti un corpo solo, il corpo mistico di Cristo.
Nonostante i disinganni, le fatiche, le incomprensioni, Carlo non perse mai la speranza, mai si lasciò prendere dallo scoramento o si lamentò. «Se il buon Dio mi permette di essere il più modesto e dimenticato pioniere nell’erezione della sua grande opera – confidò una volta – allora questo sarà il mio massimo onore e la mia gioia, e io non potrò mai ringraziarlo abbastanza per questo». E arrivò a far cantare un Te deum di ringraziamento anche il 31 dicembre 1918, ormai esautorato e spogliato dei suoi beni, vigilato dalle guardie rosse socialiste e nella sospensione per la sorte dei familiari e propria. A chi si mostrò sorpreso per questa decisione replicò: «Se si è disposti a prendere dalla mano di Dio ciò che è buono, bisogna anche essere disposti ad accettare con riconoscenza tutto ciò che può essere difficile e doloroso. Del resto, quest’anno ha visto la tanto sospirata fine della guerra, e per il bene della pace vale qualsiasi sacrificio e qualsiasi rinuncia».
Degna di lui fu la consorte, l’imperatrice Zita, che gli sarebbe a lungo sopravvissuta dovendo badare a otto figli (l’ultimo nato dopo la morte dell’imperatore) e sopportando il peso dell’esilio. Il temperamento passionale di lei e il carattere mite di Carlo si completavano reciprocamente, nella tensione costante verso la perfezione cristiana. Questa unione, durata undici anni, fu una condivisione totale che durante la prova dell’esilio a Madera – quando la famiglia imperiale visse quasi in miseria in una casa umida e gelida che sarebbe stata fatale a Carlo, già malandato in salute a causa di una febbre spagnola – gli fece dire più volte, rivolto alla moglie: «Non posso immaginarmi che sulla terra vi sia una coppia che si ami così come noi».
Quando morì, dopo aver perdonato tutti i suoi nemici, aveva solo 34 anni. Fino all’ultimo aveva offerto la sua vita e le sue sofferenze per l’unità dei suoi popoli. Di lui uno scrittore anticlericale e dissacrante quale Anatole France ebbe a dire: «Fra gli uomini di Stato del nostro tempo si è trovato un unico uomo onesto, prudente e giusto, cioè l’imperatore Carlo d’Austria. Le nostre democrazie non hanno né cuore né comprensione per i poveri popoli sanguinanti. Sì, un sovrano come quello avrebbe capito anche noi».