Dal limite il di più
La fragilità del limite: un tesoro nascosto per il nostro tempo. Nell'era del "perfetto" l'imperfezione come via alla libertà.
Le persone con disabilità vivono sulla propria pelle l’esperienza del limite: possono fare una certa cosa, mentre per tante altre devono invece attendere la disponibilità e i tempi degli altri. Anche in famiglia, nel quotidiano, sperimentano spesso fatica, scoraggiamento, senso di impotenza e sconforto abissali. Che senso ha tutto questo? Una domanda che investe l’intero mondo della sanità che sembra alla ricerca di una nuova cultura per il proprio operare.
Vale la pena allora interrogarsi se l’esperienza della disabilità contenga significati e chiavi di lettura dell’avventura umana finora sfuggite. Ne parliamo con persone coinvolte direttamente, anche se in modi diversi, che hanno qualcosa di “inaspettato” da dire. Come mi hanno spiegato, le riflessioni che seguono «non saltano fuori perché ciascuno di noi si è interrogato per conto proprio e ha pensato certe cose. È stato il trovarsi, il perdersi l’uno nell’altro nei “laboratori” che ha fatto venir fuori queste perle che, proprio perché formano una collana, sono luminose».
Le persone intervistate si ritrovano regolarmente per confrontarsi sulle reciproche esperienze di vita e riflettere insieme sul tema della disabilità o meglio del limite, valorizzandone bellezza e particolarità. Hanno chiamato questi momenti di incontro “Laboratori Dal limite il di più”.
Il limite vissuto
Giuseppe «L’immagine tipo che la nostra società propone come prototipo dell’integrazione sociale è la persona disabile che pratica sport. Questo è vero soprattutto in ambiente sanitario, dove l’attenzione è rivolta in modo particolare al fisico e al raggiungimento di certe abilità. Sono un artigiano, ceramista per scelta: nonostante il mio limite, infatti, ho lasciato il posto di insegnante per un lavoro manuale che mi piace e in cui mi sento realizzato. Per me è importante conoscere il punto dove posso arrivare. Quando incontro un nuovo limite, tendo inizialmente a negarlo, a nasconderlo a me stesso. Istintivamente cerco di superarlo, con inevitabili insuccessi e grandi o piccole sofferenze. Il limite sono le mie difficoltà e inadeguatezze, il mio sentirmi non all’altezza. In sostanza è la mia risposta inadeguata a un mio desiderio: quanto più è distante il desiderio dalla risposta, tanto più grande è la sofferenza, il disagio e la vergogna. Esperienza del limite che chiunque può fare, in qualsiasi momento della propria vita, che sia disabile o no».
Chiara M. «È difficile dipendere dagli altri, farsi aiutare, accettare una situazione cosiddetta progressiva. La frase che abitualmente mi sento ripetere è: “Spero di non aver mai bisogno di chiedere, spero di potermi sempre arrangiare, di non essere di peso a chi mi sta vicino”. Eppure alle volte conviene abbandonarsi a ciò che accade. Non come disfatta o qualcosa che mi tocca subire, ma come evento da vivere attivamente, della serie: “Voglio guardare in faccia ciò che in questo momento sta arrivando, voglio viverlo”. È una situazione che sulle prime non riesci a comprendere e della quale faresti volentieri a meno, che non ti dà risposte ma ha il potere di cambiarti inesorabilmente la vita, qualcosa che non rientrava nei tuoi programmi. Però, nel tempo, anche molto tempo, oltre la tua immaginazione può produrre effetti impensabili nelle persone che incontri. Abbandonarsi è come farsi plasmare. Devo lasciarmi plasmare anche se è difficile. Soprattutto se dentro viene voglia di urlare la propria impotenza, il proprio “perché?”».
Antonella «Mi è stata diagnosticata una neuropatia progressiva fin da piccola e con lei condivido il viaggio della mia vita. All’età di 15 anni per un intervento alla colonna vertebrale sono rimasta quattro mesi a letto dipendente da tutti per ogni mio bisogno sia fisico che sociale. Questo periodo lo vedo buio e luminoso. Buio perché in un attimo mi ha annientato autonomia e intimità, mi ha fatto provare fragilità, solitudine, dipendenza. Luminoso perché mi ha costretta a guardare nel profondo del mio essere e scoprire una forza vitale prima sconosciuta, mi ha fatto cogliere la bellezza della vita e il coraggio di viverla nonostante tutto. Ma ciò è potuto accadere solo grazie ad alcune persone che ho incontrato, quel medico che ha creduto in me dandomi coraggio e speranza ogni volta che arrivava il buio, quella voce calda e rassicurante che in terapia intensiva intuiva il bisogno o il desiderio che non riuscivo a comunicare. La “perdita” di questo e tanti altri desideri mi hanno aperto il cuore e la mente».
Claudio «Ho una malattia rara. Fino a qualche anno fa pensavo che la mia accettazione dell’handicap fosse giunta già a un livello considerevole. Anzi, da giovane, come altri, avevo utilizzato l’handicap motorio per rafforzare il carattere e acuire le mie capacità. Anch’io, come molti, ero giunto alla convinzione che nella relazione con gli altri fosse essenziale sentirsi “centrale e importante” e così facendo dare senso alla propria vita. Giunto a godere della pensione anticipata, causa l’inabilità al lavoro provocata dall’avanzare della malattia, ho iniziato ad avere a disposizione tanto tempo. E tanto silenzio. Dall’11 settembre 2001, primo pomeriggio, la centralità del mio Io, imprigionato in un corpo non proprio rispondente a tutte le mie richieste, ha cominciato a “evaporare”. Essenziale è stato l’amore di moglie e figli che, insieme alla professionalità di una psicologa, mi hanno aiutato a uscire definitivamente dallo stato depressivo in cui ero finito. Non è facile per un disabile di lunga data, autosufficiente fino ai 38 anni di età, indurito dall’esperienza della disabilità volutamente ignorata per circa 25, rendersi conto che accanto a lui esistono dei normodotati che hanno una giornata normale e chiedono, loro pure, attenzione. Ho scoperto infatti un elemento fondamentale della nostra umanità: l’importanza della fragilità, la mia e quella degli altri. E questo mi ha aperto nuovi, ampi spazi per stabilire rapporti di empatia con chi mi è vicino».
La fragilità che facilita i rapporti
Chiara N. «Il limite non solo non deve essere ostacolo, motivo di disagio o imbarazzo, ma può diventare “un di più” nella relazione perché fa arrivare dritti a ciò che è vero e semplice, provocando reciprocità. Ognuno ha dei limiti: limitazioni motorie o dovute a cause psicologiche, educative, sociali, che possono condizionare le scelte di vita. Quando mi sento bloccata nel fare o accettare qualcosa a causa del mio carattere o dell’operato di altri, cerco di ricordarmi la sfida che le persone con limiti fisici vivono quotidianamente. Posso sempre dare qualcosa, anche quando la mia professione di fisioterapista non offre risposte, come per esempio nelle fasi terminali della vita o davanti a persone colpite da demenza grave. Posso comunque e sempre “stare” accanto a queste persone, accogliendo fino in fondo ciò che possono ancora darmi».
Giuseppe «Nel momento in cui conosco e accetto, nel momento in cui “sono” il mio limite, allora sono libero e con questo posso scegliere, andare oltre, andare verso gli altri. Posso trovare la libertà».
Antonella «Da un po’ di tempo la mia autonomia si è ridotta e con essa sicurezza e capacità fisica. A volte sento rabbia, senso d’impotenza, tristezza e ritornano le domande di senso. Per tante cose non riesco più ad arrangiarmi e ho bisogno degli altri, di aspettare i loro tempi, di accettare i modi di vedere e operare di chi mi circonda. Anche se nella mia mente vedo già la soluzione devo aspettare, aver pazienza. Questi momenti in cui il limite toglie ogni giorno una piccola cosa, in un “perdere” continuo, mi riportano però all’essenziale: se riesco a perdere la fretta e la mia idea, ad accogliere l’altro che mi è vicino così com’è, mi sento libera dai miei limiti e spesso il rapporto tra noi si rafforza, trovando altre dimensioni. Però non tutti sono disposti a entrare in relazione così, per cui mi è capitato di sentirmi diversa e non accettata. È una ferita che rimane, ma in cuor mio chiedo che un giorno tutti possano provare quanto importante nella vita sia amare ed essere amati, anche con uno sguardo o un sorriso. Io continuo a provarci».
La disabilità compresa
Chiara M. «Mi arrischio a dire che la disabilità può essere davvero molto più ricca e imprevedibile di ciò che normalmente si pensa. Oso ancora di più: la disabilità ha una marcia in più. Contiene “il di più”. Oltre il limite si può davvero volare alto. Tutta questa apparente poesia, chiaramente, non toglie il crudo di dolore, sofferenza, incomprensione, ingiustizia, barriere che rimangono. Si possono però depositare come sul fondo di un bicchiere. Rimane la trasparenza, la limpidezza, il bello dell’oltre. Oltre il “non si può”, il “non posso”. Oltre, dove si può salire verso l’alto con l’anima, farla respirare perché oltre l’anima non ha barriere, può volare e incontrare altre anime con la speranza che non tutto sia perduto, non tutto sia soffocato. Scrolliamoci di dosso i pregiudizi, la paura del diverso, di ciò che è “meno” secondo la società, dello scarto come cliché. Sono gli scarti che fanno la differenza, che danno il tocco dell’originalità, che danno sapore. Per chi è scarto, tutta questa poesia come dicevo prima, non sempre si vede, anzi! Ma tutto deve cominciare da noi, da me, anche quando vedo che non riesco a fare qualcosa che il giorno prima, il mese prima, l’anno prima facevo e mi sale la rabbia dentro, verso quest’ineluttabile impotenza. Ma se io per prima faccio il salto oltre, di conseguenza lo fanno, come in uno specchio, anche gli altri. Se io, per prima, facilito gli altri nel farsi vicini alle mie necessità, in realtà sono io che li aiuto nella loro vita».
BOX
Giornata di alta formazione
Comunicazione emotiva, relazione terapeutica, disabilità: il limite come diapason di sintonizzazione sull’essenziale, Padova 7 ottobre 2011. Evento accreditato Ecm.