Dal dolore alla luce
Il Cristo immenso come il suo strazio si accascia, la bocca aperta nello spasimo, sulla croce. Negli anni in cui l’arte italiana esalta la bellezza e l’armonia fra corpo e spirito, sul 1515 maestro Grünewald, nel polittico di Colmar presso Strasburgo, parla del lato orribile della morte. Il suo è un Cristo piagato, già in decomposizione sul fondo scuro di un cielo che sembra non rispondere. In un’anta dello stesso polittico, dedicato a sant’Antonio abate, il maestro descrive il santo in lotta con la forza della tentazione: mostri immondi, nella visione dell’orrido e del macabro cara all’anima nordica europea – si pensi ad un Bosch -, ne offrono una visione tutt’altro che rassicurante. È l’altro Cinquecento, per nulla ideale, ma così vicino alla brutture di ogni epoca, anche della nostra, piagata da un male che sembra univer- sale. Un Cristo brutto, come brutti sono gli sgherri che quasi cinquant’anni dopo il vecchio Tiziano (Monaco, Alte Pinakothek) vede affollarsi intorno al Redentore percosso, sfinito tra le balugini di un lume oscillante: ma interiormente non umiliato. Ci sarà una speranza? Maestro Grünewald, in un’epoca piegata da pestilenze e da guerre, apre il polittico con una Resurrezione sfolgorante sul cielo stellato, dove il Trafitto, il verme della terra è ora altra persona, pura luce. Quel corpo vittimizzato dalla cattiveria è trasformato. Tiziano trova nella forza morale dell’Umiliato sotto i bastoni già la risposta: è nell’intimo dell’uomo la capacità di risorgere dal male. Perché questo è un Uomo che ha già in sé la possibilità della liberazione. Di qui la sua statura gigantesca, l’eroicità delle dimensioni fisiche come segno di grandezza morale. Ogni bruttura si può dunque trasformare in luce? Lo dicono i sei pannelli che Rembrandt nel 1633 dipinge per il governatore Federico Enrico d’Orange, ora a Monaco. Il pittore non si limita a contemplare, si inserisce nella scena da coprotagonista, perché si ritrova nella vicenda del Cristo. Il cui corpo deforme, a differenza di quello prepotente del contemporaneo Rubens, si innalza, grida e viene deposto fra penombre cariche di tristezza. Nella Deposizione, è lui, Rembrandt, a sostenere un braccio del crocifisso. Ma, come in Grünewald e Tiziano, il dolore non è un fatto personale soltanto, esprime una coralità. Una piccola umanità infatti segue le scene, fra sospensione e smarrimento, a cui danno voce le tinte scurite, qua e là trafitte da spiragli luminosi. Quel corpo imbruttito, goffo, non è tuttavia per sempre. Nella Resurrezione, la scena più drammatica, un angelo scuote la tomba da cui emerge un Cristo bendato che si risveglia dal sonno: delicatezza e carica umana di un evento misterioso, mai più rappresentato in questo modo nella storia dell’arte, ma di cui si ricorderà il cinema se in The Passion Mel Gibson quasi ripeterà la scena. Esiste dunque, nell’arte di questi secoli e nei suoi protagonisti, un viaggio che descrive le forme del dolore nel modo più realistico e se si vuole brutale. Pure, mai è dissimulato lo squarcio della fiducia nella possibilità umana di essere risollevati. Il Cristo risorto di Grünewald, raggiante di oro e di fuoco – simboli dello spirito – emerge nella notte stellata quasi con violenza trionfante, come trionfanti sembravano le sue piaghe deposto dalla croce o le sue mani raggrinzite dai chiodi della crocifissione, fra l’urlo muto degli astanti. I mostri sono spariti, le allucinazioni dell’anima, vanificate. Così in Rembrandt la pennellata sfumata in chiarori raffigura una resurrezione piena di speranza.