Dal disastro alla speranza
Il petrolio nel Golfo del Messico produce incalcolabili danni ambientali ed economici. La popolazione mobilitata.
Anche dopo vent’anni, le immagini della natura incontaminata del Sud dell’Alaska sopraffatta da un’ondata di petrolio nera come la pece sono ancora fresche nella memoria nazionale. Allora la petroliera Exxon Valdez aveva appena vomitato milioni di barili di greggio nel mare antistante la baia, lasciando dietro di sé una scia di morte e distruzione. Ancora oggi l’industria del pesce locale non è ritornata ai livelli precedenti e la vita nel Prince William Sound non è più la stessa.
La recentissima tragedia avvenuta sulla piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum, la Bp, minaccia già tutto il Golfo del Messico, dal delta del Mississippi alla Florida, e in potenza può essere ancora più disastrosa della catastrofe dell’Alaska. E pensare che alcune comunità, in particolare in Louisiana e Alabama, si stanno a malapena riprendendo dal passaggio dell’uragano Katrina, cinque anni fa.
Gli sforzi per contenere la chiazza di svariate miglia di petrolio prima che giunga alla costa sono immani ma, ahinoi, inadeguati. Sono stati avviati non solo dalla Bp, dalla Guardia costiera e da altri organismi governativi, ma anche da tanti semplici cittadini con rimedi improvvisati: tutti sono uniti dal desiderio di salvare la propria terra e i propri mezzi di sussistenza, anche per le future generazioni.
Si stanno usando le migliori tecnologie sia per cercare di fermare il flusso del petrolio dal fondo dell’oceano, sia per frenare la marea inquinante nella sua corsa folle verso le spiagge assolate del Golfo del Messico. I pescatori si stanno specializzando in un mestiere inconsueto: non più quello di gettare le reti ma le barriere artificiali di plastica che fermano lo spargersi del petrolio, creandogli intorno una specie di recinto. Si usano materiali chimici per disperdere il greggio e si punta su una cupola di contenimento da adagiare sopra la fuga, a 1.500 metri di profondità.
La nazione intera segue, ora dopo ora, la vicenda tramite tv, radio e Internet. La gente non vuole rassegnarsi; la spinta a far qualcosa, anche se si è lontani migliaia di chilometri, è encomiabile. Uomini, donne e bambini donano i loro capelli, sì proprio così, per imbottire calze di nylon atte a fabbricare i booms, gli atolli a forma di salsicce inanellate l’una con l’altra per “abbracciare” la chiazza. Questa specie di parete fluttuante agisce come una spugna che succhia il greggio dall’acqua grazie alle proprietà fisiche dei capelli.
La raccolta si sta svolgendo in più di 370 mila saloni di bellezza e in 72 ore si sono raccolti capelli donati dalle persone più di quanto non sia avvenuto negli ultimi sei anni. L’organizzazione noprofit Matter of Trust sta mandando circa 185 mila chili di capelli alle comunità del Golfo, dove migliaia di volontari sono impegnati nella lotta contro il tempo. E la Hanes, fabbricante di biancheria intima, sta donando 50 mila paia di calze di nylon atte all’uopo. Un piccolo segno della solidarietà che questo disastro ecologico sta generando.
L’amministrazione Obama ha voluto agire prontamente assicurando alle comunità costiere che non saranno abbandonate. Esige ora dalla Bp la garanzia totale: che cioè sarà essa a coprire le spese di pulizia. C’è un via vai di ministri e persone di spicco perché l’operazione ha bisogno di tutti: politici, scienziati, imprenditori, tutti all’opera e con grande entusiasmo.
Le ramificazioni di questo immane disastro ecologico vanno ben oltre le spiagge di sabbia bianca, le riserve biologiche e la ricca zona di pesca del Golfo. Giungono fino a Washington dove, nella sala del Congresso, si sta avvicinando l’ora del dibattito sulla nuova legge energetica, l’energy bill, che vuole introdurre limiti alle emissioni dei gas che producono l’effetto serra promovendo fonti di energie pulite come quella eolica e solare. Per ottenere l’approvazione della legge, viene contemplato nella legge anche lo sviluppo dell’energia nucleare e nuove concessioni per le esplorazioni di gas e petrolio in alcuni luoghi della costa atlantica. La proposta di legge tenta di raggiungere un difficile equilibrio tra sviluppo economico e salvaguardia della natura. Ora il tutto viene complicato dalle reazioni negative del pubblico verso l’apertura di nuove piattaforme petroliere.
Bisogna notare, però, come aveva già detto Janet Larsen dell’Earth Policy Institute al Forum internazionale di Greenaccord, il novembre scorso, che gli Stati Uniti hanno ridotto le loro emissioni di anidride carbonica nel 2009 del 7 per cento non solo a causa della recessione, che avrebbe provocato una riduzione solo del 2 per cento, ma anche di una maggior efficienza e della sostituzione di impianti elettrici a carbone con quelli a gas. La cifra è stata confermata recentemente dal governo. Anche questo può essere un segno di speranza, che cioè l’era dei minatori morti nelle miniere e delle maree nere di petrolio siano storie destinate ben presto ad essere declinate al passato remoto.