Dal deserto al colonnato
Il dottor Farag mi aspetta a Porta Angelica, accanto al colonnato di piazza San Pietro. Vive al Cairo, è di religione cattolica, è medico, specialista in chirurgia ed in chirurgia microinvasiva. Quest’uomo, dal volto pacioso e sorridente, ma dallo sguardo intenso e furbo, si dimostra straordinariamente a suo agio fra le austere mura vaticane. “Sono il secondo egiziano chiamato a far parte di una Pontificia accademia: l’altro fu Ahmed Zouel, premio Nobel per la chimica, membro della Pontifica accademia per le scienze”. Sfoglia con soddisfazione le pagine del quotidiano Al Ahram, il più diffuso nel nord Africa, che riporta la sua storia, elogiandone le scelte coraggiose ed il suo impegno per la vita: “Il mondo mussulmano è molto sensibile ai temi della famiglia e della vita e c’è molta possibilità di dialogo “. I membri dell’Accademia, tutti nominati dal papa, sono oggi 44: “Ma possono diventare 60. Nella costituzione è previsto che essi siano scelti in base a competenza ed impegno, senza distinzione di razza e religione. Per ora siamo solo cattolici, ma un collega ieri mi ha detto: “Abbiamo già un piccolo faraone: ora ci vuole un mussulmano vero””. Qual è oggi il ruolo dell’Accademia per la vita? “Studiare, formare ed informare sui temi della difesa della vita, in tutti i campi – spiega Farag -, dalla medicina alla scienza, alla filosofia, affinché chi opera direttamente abbia delle linee guida. In questi anni stiamo cercando di dialogare con la società: quando questi messaggi morali arrivano direttamente da laici competenti l’impatto è positivo. Il nostro non è solo un impegno accademico; all’ultima assemblea ho proposto, un po’ provocatoriamente, che alla fine dell’anno ciascuno sia sottoposto ad un “esame”: io che merito ho avuto di essere membro dell’Accademia e che cosa ho prodotto quest’anno? Davanti a Dio abbiamo il dovere di far rendere i talenti ricevuti. Se il nostro compito di formazione non arriva agli ultimi, restiamo un’élite”. Eutanasia, manipolazione genetica, diritto alla vita, sono oggi temi continuamente in discussione: in concreto, oggi, che cosa occorre fare? “Anzitutto rafforzare il legame fra medicina e morale, curando di far crescere, accanto alla competenza professionale, anche la personale responsabilità etica. Occorre poi chiarire il senso della cura della salute: al centro deve stare l’uomo, non il profitto. Curare non sia un lavoro, ma uno strumento per irradiare l’amore di Dio. È lui che risana, non solo la medicina: l’amore ed il rispetto per la persona vengono prima della cura. Questa priorità, oggi perduta, va recuperata, anche a livello di Oms, come è del resto scritto nel giuramento di Ippocrate. Occorre infine ricom- porre il puzzle, il mosaico delle scienze che, slegate, non fanno il bene dell’uomo: è necessario che ciascuno ami la scienza dell’altro, altrimenti non arriviamo al bene della persona, e l’etica trova grande difficoltà “. Chi lavora per la vita è spesso per i no: i no all’aborto, i no all’eutanasia “Dobbiamo allontanarci dal no, per mettere in rilievo il positivo: le persone, anche i giovani, se si sentono capite, amate come sono, accettano e collaborano. È l’esperienza che facciamo quotidianamente al Cairo. Il profilo più alto della filosofia della vita mi sembra sia “l’arte di amare”, vissuta sia fra noi accademici, sia nel lavoro che stiamo compiendo nella chiesa e fuori: l’arte di amare è la medicina balsamica per affrontare le insidie di oggi. Non abbiamo solo noi la conoscenza: occorre, come accademici, che ci specializziamo nel saper cogliere nell’altro i “semi del Verbo”, le cose positive. Chi lavora per al vita deve avere questa visione: lavorare per tendere a quella fratellanza universale che ancora manca a livello delle organizzazioni internazionali: non tutti i popoli sono trattati allo stesso livello”. Dal ’94 avete rilevato al Cairo un centro di consulenza per la famiglia che stava chiudendo: cosa vi ha spinto a farlo? “È troppo importante offrire alle famiglie un supporto di questo tipo. Oggi è un centro completo di consulenza per le coppie, con corsi per i fidanzati, con diversi specialisti a disposizione; e già abbiamo aperto centri satelliti anche nel sud dell’Egitto. Ho accettato di prendere laresponsabilità del centro dopo aver conosciuto l’esperienza del Movimento dei focolari nel deserto, in Algeria, poco dopo la laurea. Serviva un medico in quel luogo desolante in cui non c’era nemmeno un villaggio, ma solo quattro case al crocevia di due piste frequentate da carovane di nomadi beduini. “Dopo pochi mesi volevo andarmene: avevo già il biglietto di ritorno quando Giorgio, un focolarino italiano, è passato di là. Il rapporto con loro mi ha motivato a restare. Lì è venuta a stare anche mia moglie, conosciuta in un viaggio al Cairo, e lì è nato il primo dei nostri quattro figli. In quel posto, in cui l’unico cartello stradale era quello di “pericolo: scorpioni mortali” sono rimasto quattro anni. Quando siamo partiti, al mio posto sono arrivati nove medici perché quel crocevia, anche grazie all’ambulatorio, si è popolato, tanto da essere oggi capoluogo della provincia “. Cosa significa tenere aperto un centro di consulenza familiare in una cultura come quella egiziana? “In Egitto vivono 66 milioni di persone: i cattolici sono circa 240 mila mentre sono 6 milioni i cristiani ortodossi. Il centro è un punto di riferimento conosciuto ed apprezzato, non solo per i cattolici: molte coppie che abbiamo aiutato in momenti di crisi ora collaborano come volontari, qualche ora al giorno. In Egitto l’80 per cento delle unioni è combinato dalle famiglie ed i coniugi non si conoscono prima del matrimonio: il grande giardino del centro consente loro di conoscersi e molti si lasciano prima del matrimonio: grazie a questo però, dal ’94 non abbiamo avuto nessun caso di separazione”.