Daesh. Ma è una guerra giusta?

Quali problemi devono affrontare la Francia e i suoi alleati per rispondere alla minaccia del terrorismo? La questione della cosiddetta “guerra giusta” e la continuità della posizione internazionale dell’Italia. Intervista a Michele Marchi, docente di Scienze politiche all’Università di Bologna, autore con Città Nuova del volume su “La politica dei cattolici”
Renzi Hollande

Come sta reagendo l’Occidente alla minaccia del cosiddetto e sedicente Stato islamico (Daesh ? Quali problemi dobbiamo affrontare assieme alla Francia oltre la campagna di reclutamento che sta conducendo Hollande per offrire una risposta di tipo militare in un conflitto asimmetrico  difficile da combattere e, soprattutto, da vincere? Ne parliamo con Michele Marchi, autore con Paolo Pombeni del libro “La politica dei cattolici” edito da Città Nuova. Marchi è docente di storia internazionale nella facoltà di Scienze politiche dell’università di Bologna  

«Una volta passata la fase più acuta del dolore, della riflessione a caldo e anche del picco delle indagini e delle reazioni diplomatiche e militari, i principali politici francesi, a cominciare dal presidente Hollande e dai vertici delle principali formazioni politiche (Ps e LR in testa), dovranno aprire il dossier che oggi hanno più o meno volutamente eluso: giusto parlare di Daesh e di Siria, corretto fare riferimento ai foreign fighters e ai viaggi andata e ritorno tra l’Europa e Raqqa, ma impossibile pensare di risolvere il problema del terrorismo senza “attaccare” quelle vere e proprie “palestre” di esclusione, segregazione e comunitarizzazione che sono le periferie urbane, di Parigi prima di tutto (ma si potrebbero citare Strasburgo, Marsiglia, Lione, ecc..) e sempre più anche le cosiddette aree rurali peri-urbane. È in queste aree, cito ad esempio Saint-Denis ad alcune fermate di metro dal centro di Parigi, zone franche di una république assente, che si formano gli aspiranti martiri i quali, come si è visto nei tragici eventi del 13 novembre, sono quasi sempre cittadini francesi».

 

Si tratta di un problema che non certo sconosciuto…

 

«Infatti. Non pochi brillanti sociologi e geografi (cito, solo per ricordarne, due: Michèle Tribalat e Christophe Guilluy) da anni avevano lanciato l’allarme, ma sono stati poco ascoltati o al più utilizzati come vedette televisive, magari accanto a rampanti politici dell’estrema destra».

Cosa rivela una tale rimozione nella reazione del nostro Occidente laico e tecnocratico?

 

«Non ci si può stupire della laicità utilizzata a profusione (e mi pare piuttosto correttamente) dal presidente Hollande nei giorni successivi alla tragedia di Parigi. Lo richiede il contesto politico-culturale, lo richiede soprattutto la Francia e ancor di più la popolazione parigina. Quanto alla dimensione tecnocratica, al di là della tradizione francese in questa direzione, non dimentichiamo che ci troviamo a meno di tre settimane dagli eventi e altresì ci si dovrebbe trovare in piena campagna elettorale per l’ultimo voto di portata nazionale prima delle presidenziali del 2017. Stare il più possibile lontani da temi identitari e suscettibili di accreditare una qualche forma di “scontro di civiltà” è divenuto per il presidente una sorta di imperativo».

 

Come si può rispondere ad una certa analisi che propone il paragone tra la situazione attuale all’opposizione al nazifascismo per giustificare una “guerra giusta” che prima o poi dovremo combattere? 

 

«Utilizzare la lotta nazifascista come paradigma dell’utilizzo della forza armata per sconfiggere il male assoluto è piuttosto funzionale. Sia perché ad inizio anni Quaranta dello scorso secolo, la “Grande coalizione” anti-nazista è stata in grado di tenere insieme i rappresentanti del costituzionalismo liberale (Usa, GB e Francia gollista) e quelli del comunismo bolscevico guidati da Stalin (l’Urss appunto), sia perché oggettivamente il nazismo e il suo paranoico bellicismo unito alla volontà di sterminio ben si prestano ad una narrazione contemporanea alla ricerca di semplificazioni rapide nel binomio amico-nemico. Non dimentichiamo però altresì che esiste una lunga e sofferta tradizione attorno al tema della “guerra giusta”, anche se soltanto si vuole limitare il caso all’evoluzione della Chiesa nel corso del secolo passato».

 

Abbiamo così l’eterno ritorno del concetto di “guerra giusta”?

 «Come ha mostrato in maniera ricca e lineare Daniele Menozzi in un volume edito da Il Mulino nel 2008, da Benedetto XV in poi la questione è stata non poco dibattuta. Anche nel recepire l’enclica Pacem in Terris, Paolo VI, nel suo famoso intervento alle Nazioni Unite dell’ottobre 1965, era giunto a giustificare in maniera esplicita la guerra difensiva (“Finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo”, cit. p. 272). Peraltro lo sforzo diplomatico messo in piedi da Hollande all’indomani degli attacchi di Parigi è legato anche alla necessità di trovare una qualche forma di legame tra l’autonomia dell’intervento militare francese e quella risoluzione Onu sulla Siria comunque adottata nel settembre 2014. Insomma il suo tentativo è quello di accreditare una lettura il più possibile “legale” del conflitto in atto nell’area siriana».

 

Quale politica realisticamente propone oggi l’Italia a livello internazionale?

 

«L’Italia di Renzi ha optato, sul fronte della risposta di politica estera ai recenti fatti di Parigi, per una linea di continuità con quell’approccio di lungo periodo nell’area mediorientale che può essere definito, semplificando, “filo-arabismo democristiano”. Un approccio che, sempre semplificando, prende le mosse dalla politica energetica di Mattei, che si concretizza nel cosiddetto neo-atlantismo, che trova nell’attivismo moroteo di inizio anni Settanta conferma e ulteriore consolidarsi nella linea andreottiana di fine anni Ottanta, inizio anni Novanta. Questa dimensione, moderata, filo-araba e filo-iraniana (non dimentichiamo che Romano Prodi nel giugno 1998 è stato il primo leader occidentale in visita a Teheran dalla rivoluzione islamica del 1979) ma anche attenta a mantenere un buon equilibrio con Israele, potrebbe porre l’Italia, almeno teoricamente, in una posizione privilegiata per svolgere un ruolo importante una volta esauritasi l’opzione militare. In fondo la scommessa di Renzi oggi appare proprio questa. Al tavolo dei negoziati del post-Califfato (se come si spera vi si arriverà presto) siederà chi ha preso attivamente parte al conflitto, ma anche chi vi ha solo in parte contribuito e può però avanzare rapporti privilegiati (in larga parte proprio perché si è astenuto dall’utilizzo della forza bellica) e altresì fornire assistenza in altre aree, come quella libica, fulcro di quell’assente politica mediterranea dell’Ue, ma anche possibile area di intervento privilegiato proprio da parte del nostro Paese».

 

Con riferimento alla ricerca della pace, non c'è stato sempre un timore dei cattolici italiani impegnati in politica a non voler osare più di tanto nel contrastare le direttive atlantiche? 

 

 

«L’atlantismo è un termine utilizzabile per la politica estera italiana pre-89, ma oggi non ha grande senso. È corretto affermare che sul binomio atlantismo-europeismo si sia fondata la rinascita post-bellica italiana. Non bisogna però dimenticare che proprio all’interno dell’espressione massima del cattolicesimo politico del nostro Paese, cioè la Dc, non sono mancate prese di posizione anche polemiche proprio sull’atlantismo delle origini, come dimenticare ad esempio le critiche dossettiane alla dimensione soltanto militare del Patto Atlantico. E ancora proprio l’approccio filo-arabo prima richiamato non deve essere dimenticato per descrivere compiutamente l’atlantismo “realista” degli anni Craxi, con riferimento, ma non solo, ai noti fatti di Sigonella. Quindi limitare la storia dell’Italia post-’45 ad una mera obbedienza “atlantica” credo sia improprio o perlomeno eccessivamente semplificatorio».

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