Da una precarietà all’altra
È passato più di un mese da quando il primo gruppo della spontanea carovana migrante ha lasciato le proprie terre in Honduras e ha iniziato il viaggio verso nord. Oggi, a pochi metri dal confine con gli Stati Uniti, il quadro non è più incoraggiante di quando avevano deciso di lasciare tutto alle spalle.
In Honduras, Guatemala ed El Salvador, la violenza, la povertà e la mancanza di opportunità hanno spinto storicamente milioni di persone a migrare verso gli Stati Uniti. La carovana di oltre 7 mila persone quest’anno ha deciso di farlo in modo visibile e massiccio, ma ora è intrappolata nelle stesse condizioni di partenza, se non addirittura peggiori.
Durante il fine settimana i migranti centroamericani sono arrivati nella città di Tijuana, nella Bassa California, in Messico. Questa è la città che confina con lo Stato di San Diego negli Stati Uniti. Di solito a questo punto del viaggio i migranti cercano di oltrepassare in qualsiasi modo la barriera che divide i due Paesi. Anche questa volta c’è chi ha optato per questa opzione, mentre la maggioranza ha deciso al contrario di stabilirsi nella città messicana e da lì chiedere asilo al governo degli Stati Uniti.
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha emesso un ordine presidenziale con il quale respinge ogni richiesta di asilo da parte di persone che entrano illegalmente nel Paese. Tuttavia, martedì un giudice federale ha revocato la misura affermando che «lui (cioè Donald Trump, ndr) non può riscrivere le leggi sull’immigrazione per imporre una condizione che il Congresso ha espressamente vietato». Ora il governo attende la richiesta di accoglienza di coloro che sono già entrati illegalmente, così come di quelli che presentano la richiesta rimanendo dall’altra parte del muro, dove l’attesa è tutto, tranne che dolce.
I media locali riportano che almeno 2 mila migranti centroamericani sono già a Tijuana, ma che l’arrivo di un totale di 7 mila è previsto nei prossimi giorni. Al momento i gruppi, composti da uomini e donne, bambini e anziani, rimangono in un campo all’interno del centro sportivo Benito Juárez. Tuttavia, l’occupazione di questi luoghi pubblici, la costante mobilitazione degli stranieri e l’investimento di risorse statali per assisterli hanno generato malcontento e scontri nella città di Tijuana.
Negli ultimi giorni, in effetti, centinaia di residenti di Tijuana si sono concentrati per manifestare contro l’arrivo dei migranti centroamericani, per lo più honduregni. «Trump aveva ragione, è un’invasione», recitavano gli slogan di alcuni dei manifestanti. Anche se quella di Tijuana è una società abituata a ricevere un gran numero di immigrati, questa volta l’ostilità e la xenofobia verso la carovana è qualcosa senza precedenti nella città di confine, come raccontano ad esempio i reportage di BBC Mundo.
Già nello scorso fine settimana c’è stato uno scontro tra due gruppi: da una parte chi appoggia la carovana e addirittura gli offre cibo, vestiti e prodotti per la pulizia delle persone, dall’altra coloro che rifiutano la loro presenza e che con bastoni e pietre si sono avvicinati al campo dei rifugiati, cercando di intimidirli.
«Com’è possibile che noi, in fuga dalla violenza nel nostro Paese, vogliamo ancora violenza? Non vogliamo la violenza! Veniamo senza pietre, senza armi, siamo persone pacifiche che fuggono da una situazione insostenibile», dice uno degli honduregni ai media britannici.
Tensione e incertezza potrebbero aumentare nei prossimi giorni, con l’aumento del numero di migranti e la riduzione delle risorse locali. Il governo degli Stati Uniti ha la capacità di ricevere circa 100 richieste di asilo al giorno e lo spostamento totale potrebbe quindi richiedere tra 6 a 16 mesi, durante i quali le persone potranno rimanere a Tijuana o ritornare ai loro Paesi di origine. Precarietà in patria, precarietà a Tijuana.