Da principessa a suora, nel cuore di una tribù indigena argentina

Miguela Acosta è nata destinata a essere una principessa per eredità, ma il cammino della fede l’ha portata a consacrarsi al Signore e a diventare una religiosa missionaria. L’ultima intervista prima della sua scomparsa.
Comunità indigena
Miguela Acosta, in mezzo a destra, insieme a suo padre, Feliciano Acosta, curandero cacique, una missionaria di Paraná e altri membri della tribù.

La sua storia è piena di bellezza, perché intreccia due realtà completamente differenti, appartenenti a mondi diversi, anche se all’interno dello stesso Paese. Miguela è nata nella regione del Chaco, in Argentina, in una zona boschiva chiamata El Impenetrable proprio per la difficoltà di accedervi.

Fin da piccola ha avuto nel cuore il desiderio di servire gli altri: El Impenetrable è molto grande e ospita molta povertà, ma anche un grande sentimento di fraternità; infatti, i suoi abitanti si considerano una comunità di fratelli tra di loro, c’è un approccio materno, molta cura per le diverse comunità aborigene e una grande attenzione per i bisogni delle sorelle e dei fratelli che soffrono.

Miguela appartiene a una di queste comunità indigene, della località di Miraflores. Il suo villaggio è attualmente composto da 30 abitanti, tutti membri della stessa famiglia, che vivono in tre case diverse. Spiega che ci sono altri villaggi e comunità vicino a casa sua, a circa 10-20 km di distanza. Suo padre è un cacique, cioè il capo della tribù. Si tratta di un ruolo molto importante e stimato, che viene assegnato a un adulto della comunità in base al suo comportamento e all’ampio sentimento di generosità verso gli altri, in quanto si mette al servizio di tutti. Miguela ha altri 15 fratelli, ma è lei a prendere il posto del padre, ora che è anziano e gravemente malato, mettendosi a disposizione della popolazione per risolvere eventuali problemi.

Tuttavia, la sua vita non si è sempre svolta in questo ambiente rurale, circondata dalla sua famiglia. Un giorno, durante la sua giovinezza, scopre che un gruppo di missionari della città di Paraná, nella provincia di Entre Ríos, si reca periodicamente nella regione per fornire aiuti materiali e nutrimento spirituale, condividendo la luce del Vangelo con i più poveri tra i poveri. Così, quando è venuta a sapere che i missionari stavano visitando la zona di Las Hacheras, vi si è recata mossa dall’impulso di voler fare qualcosa per gli altri. Voleva conoscerli e vedere come lavoravano, ed è rimasta affascinata, a tal punto che si è manifestato in lei il desiderio di diventare missionaria. E così, durante uno dei viaggi di ritorno dei missionari a Paraná, davanti all’autobus, su una strada sterrata in mezzo alla boscaglia, c’era lei che aspettava di essere portata con loro in città. I missionari accettarono, dato che la giovane aveva ottenuto il permesso della famiglia, e da quel momento la sua vita diede una svolta di 180 gradi.

Le usanze della capitale di Entre Ríos non erano le stesse del suo villaggio, così come erano diversi il cibo, i mezzi di trasporto e persino la lingua. Non aveva mai viaggiato in auto o salita in ascensore, che preferiva non usare per paura che saltasse la corrente, né aveva mai mangiato pasti fritti. Anche imparare a vivere con altre persone è stata una conquista, dato che era una donna molto solitaria, abituata a lavorare da sola con il padre. L’immersione culturale non è stata tutta rose e fiori, poiché non sempre veniva compresa nel suo modo di essere e nelle sue idee dal resto dei cittadini, così come all’inizio non riusciva a capire ciò che le dicevano. La lingua indigena è il wichí, molto diversa dallo spagnolo, e la diversità linguistica ostacolò il suo successo scolastico, spegnendo il suo sogno di diventare avvocata. «A Paraná ho studiato duramente e sono riuscita a finire la scuola superiore. È stato molto difficile per me a causa della lingua, ho iniziato a parlare spagnolo facendo molta attenzione, ma ho dovuto ripetere un anno», racconta.

Comunità indigena di Miraflores insieme a due missionarie laiche di Paraná, Entre Ríos (Argentina).

In termini di fede, l’incontro con i missionari è stato per lei un prima e un dopo: «Ero sempre alla ricerca della verità, ma pensavo di trovarla nel sole, come diceva la mia gente, Dio che illumina tutto. Ma mia nonna era una catechista e mi ha spiegato che c’è un essere molto simile a noi che ha dato la vita per noi e che era come un sole, e ho scoperto molto semplicemente che era Gesù nell’Eucaristia. Quando ho conosciuto i missionari mi hanno insegnato la religione cattolica e mi hanno inculcato l’amore per il prossimo; sono stati il fondamento della mia vita personale e vocazionale, un potente strumento di Dio che mi ha aperto la strada e mi ha fatto vedere chiaramente cos’è la fede. Se non fosse stato per loro, non avrei conosciuto la Congregazione».

Fu così che la figlia del cacique passò dalla vita nella tribù aborigena al convento delle Suore Operaie Catechiste di Gesù Sacramentato. Sotto la guida delle suore, si preparò bene al sacramento della Cresima, che le rivelò la sua vocazione di religiosa, la quale aveva già intuito durante la prima Comunione. Miguela racconta così: «A 9 anni ho ricevuto Gesù nel Santissimo Sacramento; ho sentito la chiamata ad andare oltre, verso la montagna, avevo bisogno di volare molto in alto, come se fossi un’aquila. Il Signore ha attraversato la mia vita personale, ma non l’ho mai detto alla mia famiglia perché ne capiva poco».

In mezzo alla foto, suor Miguela Acosta durante la professione dei suoi voti come religiosa.

Dopo molti sforzi nello studio, una dedizione costante e il sostegno di coloro che l’hanno accompagnata nel percorso, si è consacrata e ha professato i voti perpetui come religiosa. Con il resto delle suore inizia ad andare in missione, a fare catechesi nelle scuole e nelle parrocchie; arrivano nel Chaco, dove la sua congregazione organizza un Incontro Internazionale della Gioventù a cui partecipano, oltre all’Argentina, anche il Paraguay e il Cile, permettendole di vivere un’esperienza molto arricchente. «Con l’aiuto di Dio, se lo accetti nella tua vita, raccogli molti frutti; se no, tutto crolla. Ho avuto la carriera più bella, ho imparato molte cose in convento, sono stata molto felice come suora», assicura Miguela.

Da alcuni anni, ha chiesto alla sua congregazione il permesso di tornare al suo villaggio con i genitori e il resto della famiglia. «Mio padre soffre di Alzheimer e voglio godermi gli ultimi anni della sua vita con lui. Inoltre, non sono stata con la mia famiglia per molto tempo. È stato difficile per me partire, ma le mie sorelle mi hanno dato il permesso e ora sono contenta», dice Miguela. Afferma che nel suo cuore sente ancora una forte chiamata alla vita religiosa e sottolinea che «una rimane per sempre suora, anche se si è fuori, perché si è già consacrata a Dio per sempre».

Ora la figlia del cacique sta imparando tutti i lavori agricoli che non aveva mai fatto prima, insegna lo spagnolo nel suo villaggio ed è molto attenta ai bisogni delle comunità aborigene, che percepisce molto trascurate. Tra le sue attività, aiuta a sbrigare le pratiche burocratiche, accompagnando all’anagrafe le persone che non sanno leggere, scrivere o esprimersi, e insegna loro ad amare Dio attraverso la catechesi. Esalta anche la cura degli animali e il contatto con la natura, che la riempie di energia e serenità. La protagonista della storia racconta che nel villaggio sono molto poveri, non hanno acqua se non quando piove e le temperature sono molto alte tutto l’anno, raggiungendo i 50 gradi. L’anno scorso, dopo 400 anni da quando la zona è abitata, è stata allacciata per la prima volta la corrente elettrica.

Come evidenzia una delle missionarie che ha conosciuto Miguela da giovane, gli indigeni hanno sete di Dio e lo apprezzano ancora di più di altre persone che vivono in città. Ora la suora è felice di poter essere utile dove si trova e vuole essere una luce per gli altri trasmettendo loro la fede. Desidera continuare a studiare, cosa che dice di amare, e sogna di aprire una mensa o una casa di accoglienza per i tanti anziani e bambini abbandonati per strada. «Che io sia nella congregazione o meno, sarò sempre una sorellina nel cuore – conclude Miguela –. Le mie braccia sono aperte a tutti i missionari, i quali mi mancano tanto e ho presenti ogni giorno, e sono infinitamente grata a loro per avermi aperto alla possibilità della vita consacrata».

Suor Miguela è morta lo scorso 31 luglio, a 47 anni, a causa di una polmonite mentre era in missione nella città Juan José Castelli del Chaco. Durante le settimane precedenti aveva scritto alle suore della sua congregazione per rientrare nell’istituto religioso, dopo la scomparsa di suo padre.

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