Da piazza Tahrir alle urne

Si avvicina la data delle elezioni in Egitto, mentre la tensione rimane alta. Intervista a padre Giuseppe Scattolin, missionario comboniano che si trova attualmente nel Paese
egitto referendum

Rimane alta la tensione in Egitto, a una settimana dalla violenta repressione delle manifestazioni di piazza Tahrir: per quanto ieri il Consiglio supremo delle forze armate abbia presentato scuse formali al popolo, questo sembra ben poco rassicurato in merito alla reale volontà dei militari di cedere il potere, nonostante le elezioni restino confermate per lunedì 28. A dover gestire questa fase delicata sarà il nuovo governo di Kamal Ganzouri, già primo ministro all’epoca mi Mubarak, dopo che le dimissioni dell’ex premier Sharaf sono state – inaspettatamente, a detta di molti – accolte dal Consiglio. Padre Giuseppe Scattolin, missionario comboniano e professore di mistica islamica all’università Gregoriana, con una lunga esperienza in Libano, Sudan ed Egitto, si trova attualmente nel Paese. Qualche domanda per capire meglio in che contesto ci si avvia alle urne.

 

 

I manifestanti tornano a piazza Tahrir a pochi giorni dalle elezioni: perché?

 

«Venerdì scorso c’è stata una manifestazione pacifica delle correnti islamiste; ma ora ad occupare la piazza sono tornati i ragazzi della “prima rivoluzione”, quella di gennaio, al grido di “salviamo la rivoluzione”. Le cose non sono migliorate molto in questi mesi, e la paura è che le manovre politiche soffochino la spinta al rinnovamento: gli stessi ministri, infatti, sono stati nominati dall’esercito. Per questo i manifestanti chiedono che i militari fissino una data certa per il loro abbandono del potere, e che venga istituito un comitato che guidi la transizione verso uno Stato democratico. Il timore è che tutto sia manipolato, per cui la gente reagisce. Il problema è che non sono state ancora poste le basi per un nuovo sistema, e molti si chiedono cosa succederà ora: le elezioni sono già state rimandate una volta, farlo ancora rimetterebbe in discussione tutto».

 

 

Il popolo attende quindi con ansia le elezioni: ma, date le violenze di questi giorni, la gente andrà davvero a votare?

 

«Quella del voto sarà una grande prova per il Paese: uno dei nodi irrisolti rimane infatti quello della sicurezza, tanto che per le strade si aggirano con facilità gruppi criminali. L’economia è in calo, e la vita della gente comune non è migliorata: in queste proteste e in questa violenza c’è lo sfogo di tutto un passato, di una rabbia a lungo repressa».

 

 

I Fratelli musulmani sono i grandi favoriti alle urne: qual è il ruolo della componente religiosa nella vita politica del Paese?

 

«In tutto il mondo islamico stiamo assistendo ad un ritorno della religione sulla scena pubblica. E non certo solo sotto il profilo dell’estremismo, ma anche della componente moderata: dopo essere stato per due secoli sotto il peso del colonialismo, ora l’Islam vuole porsi come attore effettivo della storia e interlocutore per la modernità. C’è da dire però che le componenti moderate non sono molto aiutate, lasciando le masse sono sotto l’influenza dell’ala più conservatrice: e il fatto che spesso l’Occidente identifichi l’Islam con il fanatismo non aiuta. L’Egitto sinora è stato un Paese equilibrato sotto questo profilo, ma ora i giochi sono aperti. I Fratelli musulmani hanno una storia alle spalle, e la prospettiva è quella di creare uno Stato islamico, per quanto anche qui ci siano varie interpretazioni possibili. Il fallimento di governi “puntellati” dall’Occidente fa chiaramente il gioco delle forze politiche più conservatrici».

 

 

Il panorama delle “primavere arabe”, pur presentando alcune caratteristiche comuni, è variegato: c’è una specificità dell’Egitto in questo senso?

 

«L’esigenza di rinnovamento da parte dei giovani c’è da anni nel Paese, ma non era mai stata espressa in modo così radicale. In tutti i Paesi arabi c’erano sistemi simili e questa è stata l’occasione per metterli in discussione, ma in Egitto è mancato il coordinamento: dopo nove mesi non c’è stato alcun progresso nell’organizzazione di questo cambiamento, e alla vigilia delle elezioni il sogno rischia di impantanarsi nella burocrazia. In Tunisia, invece, il processo è andato avanti in modo più coerente. Ora bisognerà vedere che cosa farà il gruppo islamista. Se si andrà verso una democratizzazione dell’Islam, sarà un’opportunità da cogliere per tutta l’area: penso anche alla Turchia, ad esempio. Ma le incognite sono ancora tante».

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