Da Kandisky a Pollock

I Guggenheim a Firenze, a Palazzo Strozzi, per un viaggio nel XX secolo assolutamente unico. Una rassegna di altissimo livello
mostre

Collaborazione tra zio e nipote, cioè tra Solomon  e Peggy, collezionisti di opere d’arte del ‘900  nelle rispettive Fondazioni di New York e di Venezia. Giusta la scelta di Firenze, dove Peggy, prima di approdare definitivamente nella città lagunare, ha esposto nel febbraio 1949 la propria favolosa collezione.  Ora, riuniti alcuni capolavori della famiglia, chi sale a Palazzo Strozzi può percorrere un viaggio nel secolo XX assolutamente unico. E accorgersi non di una ma delle molte e contraddittorie anime del “secolo breve”, unite tuttavia da un denominatore comune: i l senso del disorientamento,della disunità, dell’angoscia umana e la ricerca costante di nuove forme di armonia.

 

Dramma e ricerca, dolore e illuminazioni improvvise, desiderio del trascendente e sua negazione. Ogni autore richiama i precedenti ed apre ai successori, ma nello stesso tempo rimane chiuso come in una nicchia scultorea in  sè stesso. Il secolo XX è il secolo della frammentazione dell’individuo, del solipsismo: tante forme d’arte tanti quanti sono gli autori, anche se poi  si usa classificarli – ma è una impresa ardua e non sempre conseguente – in scuole e correnti.

 

Perciò la rassegna fiorentina rappresenta una fortunata occasione di dialogare con diverse personalità, in un colloquio a tu per tu davvero appagante. Chi avrà la possibilità di vederla potrà dire alla fine di aver avuto una esperienza anche spirituale, non solo estetica, gratificante. Qui  se ne citeranno, per motivi di spazio, solo alcune delle decine di opere esposte.

 

E’ così affascinante Kandisky nella Curva dominante del 1936: un intero cosmo sonoro esplode in un giro multiforme di colori e di linee, di cerchi come fosse un arcobaleno. E’ solo tecnica perfetta o non piuttosto fantasia di un’anima “musicale” che coglie nuovi suoni e nuove luci? Chi ama Stravinsky non potrà certo sentirsi lontano da quest’opera.

 

Constantin Brancusi esegue verso il 1940 una scultura in ottone lucidato dai sottili richiami metafisici. Si tratta di Uccello nello spazio: un’ala appuntita che si alza come un grido verso la luce vibrante nello spazio. E’ parola  diritta, invocazione  di una materia che cerca la luce  ma che già se ne riveste. Non si potrebbe infatti invocare la luce se essa in qualche modo, pur nascosta, non fosse già presente in noi. Il senso dell’infinito  in questo lavoro di 151,7 centimetri  è rapimento per l’osservatore.

 

Paul Delvaux dipinge l’Aurora nel luglio 1937: la magia  del surrealismo si carica di quel mistero che si rappresenta,  ma non si vuole o non si può sondare. Mistero è bello nelle quattro donne in dialogo muto sotto un cielo plumbeo, che ricorda i cieli lunari di un De Chirico.

 

Jean Arp scolpisce il calcare della Corona di germogli, nel 1936. Ci si commuove fermandosi di fronte a questa forma melodica nello spazio, un canto della pietra che fa intuire il germoglio di un fiore o di una pianta, ossia della vita. La vita, appunto: colta nel suo principio come forma imperfetta da una parte e già perfetta perché contiene i l futuro. Questa scultura è una nuova armonia di dolci curve. Ma quanto dolore sia costata, non lo si può che immaginare.

 

E, a proposito di dolore, Picasso ne è un interprete particolare.  Il Busto d’uomo con maglia  a righe (1937) dice tutto nel suo colore tetro, grigio: l’uomo è spezzato, l’artista sente già i venti di guerra.

 

Ed arriviamo a Jackson Pollock, alla sua lucida distruzione dell’essere. La mostra gli dedica una sala  intera. Gocciolano amarezza le tele dell’artista americano, ma anche furia, ricerca nervosa. Il fascino dei Sentieri ondulati (1947) è formidabile. Nell’intrico di linee, di curve  e di giri, nel mosaico frastagliato del colore si individua il labirinto in cui s’è chiuso l’uomo e la faticosa – impossibile?- via d’uscita. Ma tale  groviglio è anche ansia di uscire da sé stessi, è cataclisma cosmico e sociale. E’ il Nulla, dipinto come poche altre volte nella storia dell’arte. Bisogna riandare a Bosch e ai suoi fuochi per trovare qualcosa di simile. Nella tela Numero 18 (1950) Pollock pare voler uscir dalla ragnatela cosmica  perché intuisce – lo sfondo è unitario e neutro – che può esserci un’altra dimensione.

 

Lucio Fontana nel Concetto spaziale (1951) buca lo spazio dorato: sembrerebbe voler bucare l’infinito, forarlo. Forse farlo soffrire come  soffre l’uomo? Ognuno può dare la propria risposta. Oltrepassando maestri  come Max Ernst, Mirò, Burri, Duchamp, Dubuffet,  Henry Moore, Cornell,  Bacon e Calder ( i suoi “pezzi” volanti nello  spazio sono bellissime voci) , arriviamo ad un’altra sala monografica.

 

E’ la volta di Mark Rotko, forse il massimo artista del secondo ‘900. Rothko esprime infatti l’anima del secolo: disunità ansia ricerca e nuovi confini. Basta il Senza titolo del 1968 a dirlo. Nero in alto- morte e dolore -, rosso al centro e in basso – amore e fuoco – giallo ai lati, la luce nuova che si vuol rivelare. E’ astrattismo,.arte informale? E’ Rothko, ossia un mistico che penetra nella dimensione spirituale in cui non c’è più  bisogno del corpo. Ma la negritudine acuta di altre tele dimostra la durezza del cammino, i l grido  del dolore, dell’uomo che si sente solo e abbandonato. E che pure tenta una strada verso la luce.

Una mostra da non perdere.

 

Fino al 24/7 (catalogo Marsilio)

I più letti della settimana

Il sorriso di Chiara

Abbiamo a cuore la democrazia

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons