Da Ippocrate in poi

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“Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro di…”. Così i neolaureati in medicina promettono fedeltà a certe regole etiche di comportamento racchiuse in quel Giuramento di Ippocrate che dovrebbe guidare il loro operato. Perseguire come scopo esclusivo la difesa della vita, sollevare la sofferenza, attenersi ai princìpi della solidarietà umana, curare tutti i pazienti con scrupolo e impegno, non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente, astenersi dall’accanimento diagnostico diagnostico e terapeutico. Sono solo alcune di queste regole che ogni medico sottoscrive. Pur con tutte le buone intenzioni però, nella pratica, le cose vanno diversamente. È sotto gli occhi di tutti. Tumore all’intestino, cirrosi epatica, tubercolosi… Mai che si sentisse parlare del sig. Rossi, della sig.ra Bianchi, di Giovanni o di Francesca in quella corsia d’ospedale. Riconoscibili tramite la risonanza magnetica, la tac, l’ecografia. Foto di moderne “carte d’identità” dietro cui l’identità, a dire il vero, si è persa del tutto. È un quadro abbastanza realistico del rapporto fra medico e malato che spesso si riduce al trattamento di un caso clinico, di una malattia. Una serie di organi da curare, su cui intervenire, da studiare. Non una persona, il malato appunto, che soffre e ha bisogno, prima di tutto, di essere capito. Il “mestiere” del medico è cambiato nel tempo, di pari passo con quella parcellizzazione della società che ha minato l’uomo nel più profondo. E così come gli ha fatto smarrire il senso dell’appartenenza ad un corpo sociale, gli ha fatto dimenticare che il suo corpo non è un insieme di pezzi indipendenti ma semmai interdipendenti. Lo dimostrano tra l’altro nuovi studi sulle cellule (vedi articolo a pag. 70) secondo i quali nessuna di esse è in grado di vivere o di morire da sola ma tutto dipende dal rapporto che ciascuna ha con le altre. E dunque non basta occuparsi di un organo che non funziona ma occorre prendere in considerazione tutta la persona. Anche se questo richiede più del tempo necessario per un esame radiologico e implica un rapporto medico paziente che nessun manuale insegna. La società poi, dove è più importante avere che essere, sovente ha ridotto pure l’uomo ad oggetto, succube delle leggi di mercato. Anche quando si tratta della sua salute. Sarebbe sufficiente a dimostrarlo il fatto che la ricerca medica investe tanto sulla cura delle malattie dell’occidente (l’obesità ad esempio) che consente lauti guadagni mentre abbandona quelle patologie mortali che affliggono milioni di esseri umani nel sud del mondo semplicemente perché non redditizie. Quanto basta per poter dire con la dott.ssa Anna Fratta, medico internista, che “è necessaria oggi come mai, una “demitizzazione” della scienza e una sua “riumanizzazione””; un umanesimo scientifico che sappia armonizzare i valori della scienza con i valori della coscienza in un’epoca in cui “nata religiosa, divenuta filosofia, la medicina si è oggi sganciata da ogni altra forma di sapere ed è diventata, per lo più, mera tecnologia” (1) che tende a gestire il corpo umano, con tutte le conseguenze che ne possono derivare per la dignità e l’integrità dell’uomo”. Può essere inteso in questa direzione il tentativo fatto da diciassette medici europei e statunitensi di una moderna “Carta della professionalità medica”? Forse. In tre anni di lavoro i rappresentanti delle fondazioni americane e della federazioneeuropea di medicina interna hanno individuato tre princìpi base e dieci norme che adattano il Giuramento di Ippocrate alle nuove necessità della scienza medica (vedi box). Potrebbe essere di per sé un segnale positivo perché evidenzia un impegno rinnovato nei confronti del malato e delle sue esigenze. Ma certo quando c’è la necessità di fissare delle regole che sarebbero già insite nella professione potrebbe trattarsi di un campanello d’allarme. Un medico che sia così coerente, purtroppo, si distingue. E se la medicina diventa tecnologia si capisce anche che ad una macchina si può chiedere di guarire ma si può anche chiedere di morire. La differenza è tra iniettare un liquido o un altro, azionare un comando o il suo opposto. La recente entrata in vigore della legge sull’eutanasia in Olanda ha riacceso i fari su una questione che giace sopita in un angoletto dove ogni tanto si accende una luce, suscitando discussioni per qualche giorno, finché ricade nel dimenticatoio. Ma il problema è che, se ne parli o no, la gente continua ad essere uccisa. Mi si perdoni il termine, ma non riesco a parlare di “dolce morte” di fronte ad una pratica che chiude sbrigativamente una vita. E la legalizza- zione concorre solo a mettere in pace le coscienze di chi la pratica. Basta leggere la testimonianza del dott. Robert Twycross, responsabile dell’unità di cure palliative a Oxford, nel libro La dolce morte (ed. Sonzogno) scritto da Marie de Hennezel, psicologa e terapeuta in una équipe di cure palliative per malati terminali. “L’altro giorno ho ricevuto pressioni molto forti per il ricovero di un paziente davvero grave. Era urgente. Stava per iniziare il fine settimana e c’erano due malati in fin di vita. Gli rimanevano soltanto pochi giorni. In un contesto in cui la legge ci autorizzasse ad accelerare la fine dei pazienti, so benissimo che sarei stato fortemente tentato di farlo, per liberare un letto e accogliere l’altro paziente in attesa di ricovero”. Secondo la Hennezel sembra che un medico su due abbia compiuto almeno una volta un atto eutanasico. E che però questi eutanologi (sarà una nuova specializzazione?) ne restino segnati profondamente. Beh non si può negare che dare la morte è un fallimento per chi dovrebbe aiutare a guarire e forse è proprio questo senso di impotenza di fronte alla malattia che induce ad abbreviare i tempi della sofferenza. Ci vuole coraggio a soffrire, ma ce ne vuole altrettanto a veder soffrire e ciò può generare il rifiuto. Del personale medico come dei parenti. Tanto più nel mondo dell’efficienza in cui viviamo, dove qualsiasi cosa che non funzioni si butta mentre una volta si riparava. Peccato che non si riesca a distinguere quando si tratta di un uomo. “Dottore voglio farla finita”. Con che cosa, con la vita, col dolore o con l’indifferenza, con quel senso di inutilità col quale si viene guardati, con quel sentirsi un peso, con quella solitudine che opprime? Aiutare a morire sì, ma aiutando a vivere, fino alla fine. Questa è la sfida.

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