Da Foggia a Marghera passando per Trieste, la coscienza che si oppone alla guerra
A dispetto delle classifiche economiche impietose che collocano la provincia di Foggia all’ultimo posto per la qualità della vita, basta scorrere il lungo elenco delle realtà aderenti alla marcia della pace in programma domenica 14 aprile 2024 per avere un’idea della ricchezza di un tessuto sociale che lotta ogni giorno per dare spazio alla speranza di un mondo diverso.
Lo dimostra il percorso del corteo che partirà dalla comunità Emmaus, sorta nel 1978 ad opera dei religiosi salesiani come risposta al disagio di un quartiere difficile della città di Foggia, per arrivare, secondo le intenzioni dei promotori, davanti all’aeroporto di Amendola, snodo logistico dell’attività militare sempre più intensa nello scenario della guerra mondiale a pezzi denunciata dal realismo di papa Francesco.
La testa del corteo verrà fermata, per ragioni di sicurezza, prima di arrivare in prossimità della base militare dove sono operativi i caccia bombardieri F35 predisposti per trasportare bombe nucleari stoccate in Italia nelle basi di Ghedi e Aviano. Intenso è anche il traffico, nelle basi militari Nato e statunitensi collocate in Italia, di sofisticati droni sempre più adottati nei teatri di guerra in Medio Oriente come nel Mediterraneo.
Le istanze della manifestazione partono dalla necessità di chiedere il cessate il fuoco a Gaza e in Ucraina per ridare centralità alle Nazioni Unite nel convocare una conferenza internazionale di pace. È richiesta in articolare un’azione coerente dell’Italia in linea con il dettato costituzionale del ripudio della guerra e le limitazioni di sovranità «necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» che solo l’Onu può perseguire.
A Foggia è prevista la presenza del vescovo di Pax Christi, don Giovanni Ricchiuti, e c’è il sostegno del vescovo di Manfredonia, padre Franco Moscone. Interverrà anche Bernardino Mason che, assieme a Carlo Costantini, hanno intrapreso a Marghera la pratica della lotta nonviolenta del digiuno per la pace, man mano adottata a scacchiera da un crescente numero di persone in tutta Italia.
Il digiuno di Mason e Costantini si è protratto dal 14 febbraio al 13 aprile, ma continuerà anche dopo a staffetta con un numero crescente di partecipanti. Un lunghissimo periodo durante il quale sono stati monitorizzati dai medici e hanno osservato un’astensione dal cibo che non è quella assoluta di Gandhi ma ridotta a qualche minima sostanza e idratazione.
Chi li ha visti il primo dell’anno a Gorizia, nella marcia della pace della Chiesa italiana sul confine con la Slovenia, trasportare uno striscione con le bandiere della pace assieme a quella dell’Onu, Israele e Palestina, poteva intuire che quella tempra asciutta e resistente di marinari veneziani era pronta a compiere un gesto eclatante per svegliare le coscienze sopite davanti all’intollerabile strazio delle vittime del 7 ottobre, il rapimento degli ostaggi e i bombardamenti su Gaza ridotta in macerie.
Il gesto radicale del digiuno è un grido estremo per dire “fermatevi!”, non potendo accettare l’assuefazione davanti allo strazio di oltre 32 mila vittime nella Striscia di Gaza mente le cancellerie occidentali avvertono del pericolo di un’azione bellica dell’Iran contro Israele in grado di innescare un’escalation incontrollabile. L’arrivo della primavera, sul fronte ucraino, si accompagna all’intensificazione degli scontri armati che richiedono un flusso sempre più intenso e massiccio di strumenti bellici alla ricerca di una vittoria impossibile da raggiungere da entrambe le parti se non a costi indicibili.
I costi economici, culturali ed esistenziali della guerra continuano ad uccidere e a covare altre tragedie come dimostra in abbondanza la storia dell’Europa nonostante le sue radici cristiane. Eppure il frutto di quella cultura che esprime l’impronta di una fraternità insopprimibile emerge in snodi decisivi della storia come avvenuto con l’affermarsi dell’Europa unita dopo il secondo conflitto mondiale.
E proprio con riferimento a quella tragedia che si può cogliere il gesto emblematico di pace espresso nel 2020 dal presidente della Repubblica slovena Borut Pahor e da quello italiano Segio Mattarella davanti alla foiba di Basovizza dove furono uccisi duemila italiani, dopo aver concordato la restituzione alla comunità slovena della casa del popolo di Trieste, Narodni Dom, incendiata dai fascisti nel 1920. Due uomini autorevoli e in età matura che si son dati la mano come due scolaretti in fila davanti ai segni dell’orrore che rischia di nuovo di divorare popoli e persone.
«La storia non si cancella, la sofferenza sia patrimonio comune», dissero in quella occasione che è all’origine del conferimento, venerdì 12 aprile, da parte dell’Università di Trieste della laurea honoris causa a Pahor e Mattarella. Nella sua lectio magistralis il presidente della Repubblica italiana ha affermato che «la riconciliazione con la storia non ci libera dal dovere di conoscerla e di ricordare, come Borut Pahor ha più volte sottolineato. Non conduce a letture di comodo del passato né relativizza le responsabilità, ma ci consente di coltivare sentimenti di rispetto per le sofferenze di ciascuno, in luogo di nutrire rancore e contrapposizione».
Una prospettiva e un criterio di azione che appare sempre più pressante nel tempo attuale.