Cyrano, l’antieroe
È la leggerezza la cifra espressiva del Cyrano de Bergerac firmato da Daniele Abbado e con protagonista Massimo Popolizio. Ed è subito apprezzabile questa nuova messinscena per aver evitato quella trombaggine fracassona, caricaturale, sdolcinata che, di solito, è la sua trappola. O, nel versante opposto, quelle interpretazioni costruite in chiave di facile psicologismo.
L’interpretazione meditabonda e da anti-eroe di un Massimo Popolizio fuori dai canoni picareschi da gran romanzo ottocentesco tutto cappa e spada conferisce al celebre personaggio di Edmond Rostand una dimensione di percepibile umanità. Egli vive un senso di inadeguatezza e di vergogna per quel naso deforme che gli impedisce di esprimere sentimenti. E l’incapacità di amare diventa la chiave di lettura dello spettacolo. Cyrano è l’utopista che pretende di cambiare il mondo con la forza delle parole, della poesia, uomo solo in lotta contro la volgarità e l’ipocrisia, ma già sconfitto in partenza.
L’intrigo romantico è strutturato come un gioco sulle apparenze. Rossana, la cugina corteggiata inutilmente dal protagonista, dalla squillante civetteria, s’invaghisce infatti della bellezza dei versi, ma rifiuta l’amore per sé stesso. Ama Cristiano per le parole d’amore che egli le scrive ma che non gli appartengono, incapace com’è, il giovane, di esprimere a parole il suo sentimento. Ed ecco Cyrano offrire con sublime generosità la sua penna e, all’occasione, persino la voce al fortunato rivale in amore, e a suggerirgli i versi nella scena del balcone di Rossana sotto il quale si consuma il rito della sostituzione. O scrivergli lettere infuocate dal fronte di guerra. Un amore quindi, per interposta persona, con Cyrano che rimane nell’ombra fino all’inutile svelamento finale.
Il regista sceglie quasi tutto l’italiano ritmato della traduzione storica di Mario Giobbe. Ma punta all’agilità del verso, alla stilizzazione sia scenica che recitativa, anche se alcuni passaggi sono buttati via troppo frettolosamente. In uno stanzone semicircolare con porte a parete, tende che scorrono, finestre e facciate che calano dal soffitto, s’agita un mondo di uomini arroganti, di potenti che applaudono chi «parodiando i versi li farà divertire». E contro questi si batte Cyrano, costretto inizialmente a esibirsi come un guitto dando prova della sua abilità con le parole.
Con cappotto e cilindro, chapliniano, attraversa la scena della vita armato solo di pudore e di fragilità. Cyrano muore isolando il suo monologo della simulata pazzia non più verso la luna, simbolo della sua utopia, quella di uomini capaci di realizzarsi, ma rivolto alla platea seduto sui gradini. Momento altissimo grazie a quella capacità affabulatrice e interiorizzata di Popolizio di elargire parole autentiche.
Al Teatro Argentina di Roma (produzione Teatro di Roma) fino all’8/11. In tournèe al centro e nord Italia fino a marzo.