Curreri: un Sì per la governabilità

Intervista al professore di diritto costituzionale dell’università Kore di Enna, Salvatore Curreri, sulle ragioni a favore della riforma Boschi-Renzi e la risposta ad alcune obiezione dei sostenitori del No
Curreri

Alla vigilia del referendum costituzionale di domenica 4 dicembre riprendiamo il discorso con Salvatore Curreri, professore di diritto costituzionale all’Università Kore di Enna, nostro interlocutore, con la moderazione di Michele Zanzucchi, nel dibattito tenutosi il 30 settembre scorso durante la manifestazione di Loppianolab nel dialogo aperto con Raniero La Valle, schierato per il No con i comitati Dossetti per la costituzione, ed esponenti dei diversi partiti, dal Pd a Forza Italia, al M5S.  

 

Cominciamo con l’argomento della riduzione della spesa per la politica sostenuta tra le ragioni dei promotori del Sì.

Con i risparmi dei "costi delle istituzioni" che, nella migliore delle ipotesi, sono inferiori ai 10 euro a cittadino, è corretto considerare questo punto come uno dei cardini della riforma?

Per quanto accattivante, non ho mai considerato il tema dei costi della politica decisivo ai fini del giudizio della riforma. Certo, mai come ora la politica deve dare il buon esempio ed essere sobria, eliminando sprechi e privilegi insostenibili e intollerabili. Ma la politica costa e i suoi costi devono essere a carico dello Stato, altrimenti il rischio è ritornare a quando la politica era fatta dai più ricchi. Ma i veri costi della politica sono nella sua incapacità a dare risposte efficaci e tempestive ai bisogni dei cittadini. Un cattivo parlamentare, anche se pagato la metà, resta un cattivo parlamentare.

 

Il nuovo Senato, in base alla composizione e ai meccanismi di elezione previsti, consentirà un avvicinamento delle istituzioni centrali al territorio e un migliore raccordo fra Stato ed enti locali?

Ne sono convinto. Noi siamo l’unico Paese al mondo che ha due Camere che fanno le stesse cose, mentre invece tutte le grandi democrazie europee hanno una seconda camera che consente alle autonomie territoriali di avere un luogo politico istituzionale centrale con cui dialogare con lo Stato. Il prezzo di tale assenza è stato l’abnorme contenzioso tra Stato e Regioni che si è scaricato sulla Corte costituzionale, chiamata a svolgere un ruolo non richiesto e non gradito. Se vogliamo che il Senato rappresenti le istituzioni territoriali, occorre che i nuovi senatori siano eletti dai consigli regionali, pur in conformità alle scelte espresse dagli elettori, altrimenti avremo una seconda Camera politica, cioè quell’inutile doppione di cui già parlava Costatino Mortati all’inizio degli anni Cinquanta.

 

La legge elettorale in un sistema almeno tripolare come quello attuale, avendo l'obiettivo di assicurare comunque la maggioranza alla Camera al primo classificato, non rischia di alterare in modo abnorme la fotografia della rappresentanza, replicando così l'anomalia bocciata dalla Consulta nel Porcellum, e per giunta nell'unica Camera che darà la fiducia al governo? Quali variazioni sono auspicabili?

In un assetto tripolare come l’attuale è impensabile che un partito ottenga da solo la maggioranza dei seggi. Allora delle due l’una: o accettiamo che i governi siano scelti non dagli elettori ma dai partiti che si mettono d’accordo tra loro per raggiungere tale maggioranza (il che, vista l’indisponibilità del Movimento 5 Stelle, vuol dire che avremo sempre governi di centro-sinistra con deputati transfughi del centro-destra), o viceversa; oppure accettiamo il meccanismo del ballottaggio che, come avviene nella elezione dei sindaci, permettere alla maggiore minoranza di trasformarsi in maggioranza. A me non pare che l’Italicum presenti gli stessi vizi della legge Calderoli perché, in tal caso, il premio di maggioranza è attribuito a chi ha ottenuto la maggioranza al ballottaggio. Tutto si può migliorare, anche l’Italicum, a patto di avere un sistema elettorale che garantisca non solo la rappresentanza ma anche la governabilità del Paese.

 

La clausola di supremazia è un ritorno al centralismo su molte materie o un giusto rimedio ai tanti contenziosi sulla legislazione concorrente ingenerati dalla riforma del Titolo V del 2001?

La clausola di supremazia risponde all’esigenza di far valere l’unità giuridica o economica della Repubblica o l’interesse nazionale (nozione già presente nella Costituzione del 1948) quando minacciata dall’attività legislativa delle Regioni. Si tratta quindi di intervenire dove c’è inefficienza. Di contro, grazie al nuovo articolo 116 sul cosiddetto federalismo differenziato, le Regioni più virtuose sui conti pubblici posso ampliare le proprie competenze in determinate materie, come le politiche sociali, le politiche attive del lavoro, la formazione professionale. In definitiva: dove ci sono problemi lo Stato interviene, dove c’è efficienza e i servizi funzionano lo Stato premia.

 

Visto che gli occhi di tutto il mondo sono puntati su questo referendum, come confermano le prese di posizioni a livello di Ue e Usa a sostegno della riforma, è concreto il pericolo di conseguenze economiche e finanziarie negative in caso di vittoria del No? Non ci sono troppe pressioni esterne che minano la sovranità popolare

Che ci piaccia o no viviamo in mondo globalizzato. Così come quel che accade all’estero ha conseguenze nel nostro Paese (v. il referendum sulla Brexit), allo stesso modo quel che accade nel nostro Paese ha conseguenze all’estero. Non vedo minacce alla nostra sovranità perché ritengo gli elettori ormai adulti e consapevoli. Né credo opportuno evocare scenari catastrofici, in economia come in politica, qualunque sia l’esito del voto. Bisogna andare al merito della riforma: i governi passano, la Costituzione resta. Non vorrei che un domani, quando al governo ci sarà un partito più vicino alle nostre idee e questi non riuscirà a realizzare il suo programma a causa dei lacci e lacciuoli che imprigionano questo Paese, qualcuno dovesse pentirsi di aver votato No.

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