Cure palliative in tempi di guerra

Dove c’è dolore globale (fisico, psicologico, sociale e spirituale), lì devono esserci servizi di cure palliative, diritto universale.
Anziani
(Foto: Pixabay)

«La guerra, se filtrata attraverso il mezzo della stampa o dello schermo, è nebulosa, astratta, ultraterrena, ma da vicino è incontrovertibilmente viscerale. È la bambina con le scarpe rosse che trema mentre cerca la mano di sua madre nel rifugio. È il neurochirurgo che non riesce ad aiutare i suoi pazienti in sala operatoria perché, ancora una volta, è saltata la corrente. […]. Gli ospedali sono pieni, i servizi di emergenza sono sotto pressione e i pazienti sopportano, o muoiono, in condizioni inenarrabili nei corridoi, nelle ambulanze bloccate sui piazzali degli ospedali, o a casa prima ancora che i soccorsi possano raggiungerli» [traduzione mia]. Con queste parole la dottoressa Rachel Clarke – vivace osservatrice del valore sociale delle cure palliative – esprime lo sgomento di fronte all’orrore di tutte le guerre, partendo da un whatsapp ricevuto da un collega di Kiev.

In un appello, la ICPN (International Children’s Palliative Care Network) afferma il bisogno di cure palliative come diritto universale senza bandiere anche nei luoghi di guerra: «Abbiamo ascoltato storie di coraggio e di sforzi umanitari, come quella di 150 bambini ucraini malati di cancro e delle loro famiglie che hanno raggiunto la Polonia e altre destinazioni per continuare le cure […]. Sappiamo che i professionisti delle cure palliative hanno sostituito il camice bianco con la tuta dell’esercito per combattere per i loro Paesi e che altri fanno del loro meglio per assistere adulti e bambini bisognosi di cure palliative in circostanze così difficili e stressanti. I nostri amici e colleghi in Ucraina hanno lavorato duramente nel corso degli anni per sviluppare servizi di cure palliative per adulti e bambini (…). Ora stanno cercando di evacuare coloro che hanno bisogno di cure palliative. Vorremmo anche dedicare un pensiero e un riconoscimento ai nostri colleghi di cure palliative in Russia» [traduzione mia].

Da tutti i punti di vista la guerra è sempre un assurdo. Lo è anche agli occhi di chi quotidianamente negli hospice e nei servizi di cure palliative si spende perché la morte possa essere accompagnata e resa degna di ogni essere umano, in qualunque circostanza si manifesti, credendo nel valore della vita, della vicinanza, della relazione, di un clima di tranquillità e di pace, fino alla fine. Niente di più estraneo della furia cieca e indiscriminata delle bombe, che insieme con le vite tronca quotidianità, case, futuro.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolinea che dove c’è dolore globale (fisico, psicologico, sociale e spirituale), lì devono esserci servizi di cure palliative. Non solo, nel caso delle guerre, per l’emergenza assoluta di lenire la sofferenza fisica di chi è colpito direttamente dalla violenza, ma anche per offrire supporti psicologici di urgenza, cure spirituali nell’assurdo senza risposta dell’odio, reti sociali, anche attraverso “ponti” a distanza, per dare ancora un barlume di speranza a generazioni che sarebbero irrimediabilmente perdute (ricostruire da subito i cuori: sembrerebbe essere questa la sfida più drammaticamente urgente, sapendo che la ferita di una guerra si tramanda per almeno tre generazioni prima che si riaccenda una solida cultura di pace).

Sono importanti i report sulle cure palliative nel mondo, che raccolgono anche le testimonianze spesso “eroiche” sui servizi in Paesi come la Siria, il Libano, il Ruanda, lo Yemen… a dire ancora una volta che essere accompagnati con dignità alla fine della vita è un diritto umano universale e non un “lusso” per le nazioni ricche.

Ma ci sono anche impegni possibili per chi dalla guerra, almeno per ora, è apparentemente lontano. Lo viviamo ogni volta che incontriamo in hospice gruppi di giovani o comunità cittadine per parlare di cure palliative come cura della vita in ogni istante e circostanza, affermando la speranza che dal dolore dell’oggi possano nascere semi di futuro (è quello che quotidianamente viviamo con i nostri malati e le loro famiglie). Cure palliative come alternativa a un clima che rende prigionieri di una «gabbia di paura, rabbia e sfiducia» (The Economist, 2015) che sembra diffondersi come una nuova pandemia sociale secondo cui alcune vite “non hanno più senso” o possono “valere di meno” a seconda delle circostanze (è solo una suggestione il parallelismo fra i nostri tempi e il “progetto eutanasia” del 1933, sorta di prova generale nella Germania di Hitler di tutto ciò che ne sarebbe seguito?).

Lo viviamo ogni volta che affermiamo che il Sistema Sanitario Nazionale è un bene prezioso e che le cure palliative sono un diritto: con la spesa di una giornata di guerra si potrebbero coprire le spese per l’assistenza di 700 anni in un hospice. Sembra follia, ma forse è peggio considerarla, con rassegnazione, normalità.

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