Curare le malattie rare con competenza e sensibilità

Intervista a Ferdinando Squitieri, responsabile dell’Unità Huntington e Malattie Rare presso l'IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, su queste patologie che interessano milioni di italiani.
Analisi di laboratorio

Hanno nomi sconosciuti ai più, ma rappresentano una realtà dolorosa per un numero crescente di persone. Sono le malattie rare, quelle che colpiscono fino a 5 persone ogni 10.000, almeno secondo i parametri UE. Sono milioni i pazienti in Italia e 19mila – secondo l’Istituto Superiore di Sanità – i nuovi casi ogni anno; decine di milioni i malati rari in tutta Europa.

Per richiamare l’attenzione su queste patologie è stata istituita, tredici anni fa, la Giornata mondiale delle malattie rare, che ricorre il 29 febbraio. Papa Francesco l’ha definita un’occasione per prenderci cura «dei nostri fratelli e sorelle che ne sono affetti, integrando ricerca, cure mediche e assistenza sociale, in modo che abbiano pari opportunità e (…) una vita piena». Ma cosa serve per raggiungere questi obiettivi? Ne abbiamo parlato con il professor Ferdinando Squitieri, Responsabile dell’Unità Huntington e Malattie Rare presso l’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, e direttore scientifico della Fondazione Lega Italiana Ricerca Huntington Onlus.

Professore, come curare una malattia rara e garantire ai pazienti una vita normale?
Servono almeno due cose. Una è la competenza. Bisogna dimostrare di averne per specifiche patologie, perché le malattie rare sono circa 8mila e non si può essere competenti per tutto. Ovvero non basta una conoscenza di tipo medico superficiale, ma serve una conoscenza scientifica approfondita. La seconda cosa è la sensibilità, perché la sofferenza che sperimentano le famiglie che vivono l’esperienza di una malattia rara, che di per sé può essere già grave e invalidante, è accresciuta dalla discriminazione e dallo stigma con cui risponde la società.

Il diritto alla diagnosi e all’accesso alle cure si scontra anche con le attività di ricerca delle industrie farmaceutiche che nel promuovere l’innovazione devono assicurarsi anche un equo profitto. Come favorire l’incontro fra queste due esigenze?
Con regole che la politica in genere garantisce, facilitazioni economiche alle industrie che sviluppano i farmaci per le malattie rare. Questo già esiste, in particolare a livello internazionale, ma deve essere probabilmente migliorato sul piano nazionale.

Quali sono i dati circa l’accesso alle cure nei Paesi sviluppati? E in quelli poveri?
Abbiamo una stima dei numeri sulle malattie rare relativa ad alcune patologie, ma non ad altre. La stima di quanto è frequente una patologia dipende da quanto essa è conosciuta in quello specifico posto, per cui nel mondo sviluppato c’è una frequenza maggiore perché nelle altre aree geografiche tali malattie sono meno conosciute e studiate. Tuttavia ci sono malattie rare diffuse nel mondo occidentale – malattie neurodegenerative genetiche come quella di Huntington – che cominciano ad essere note e presenti anche nei Paesi del terzo mondo con numeri significativi, ma non ancora quantificati. Paesi che dobbiamo aiutare con le nostre competenze.

Nel nostro Paese i servizi di assistenza domiciliare sono sufficienti?
Sono assai scarsi e presenti a macchia di leopardo e al Sud la situazione è peggiore che al Nord. Serve una maggiore omogeneità a livello nazionale. Qui il dialogo tra le Regioni e lo Stato è decisivo, come pure risolvere le fragilità evidenti legate alle farraginosità di alcune politiche regionali.

Come promuovere l’inclusione dei malati rari?
Serve arrivare a cure che rendano più miti certe situazioni severe, ma soprattutto è necessario favorire un cambiamento culturale, che costruisca una maggiore sensibilità verso quelle condizioni che non conosciamo. Qui è importante il ruolo della comunicazione, perché non sono utili slogan superficiali che puntano ad impietosire, ma informazioni accurate che aumentano la conoscenza. Se si usa l’immagine di un bambino che soffre essa colpisce l’attenzione delle persone, ma non ha ricadute sul motivo per cui quel bambino sta male. Piuttosto, serve mettere in luce i problemi che sono dietro le malattie rare e che producono la fragilità di queste famiglie, per sollecitare iniziative politiche che puntino a proteggerle e difenderle.

È possibile prevenire le malattie rare?
Ad oggi non è possibile, ma deve diventarlo. In molti casi le malattie rare sono malattie genetiche e questo a volte consente di prevederle in anticipo, quindi prevenirle in futuro sul piano terapeutico. Questo è uno degli obiettivi più importanti della ricerca scientifica. La prima malattia per cui si è giunti a un test genetico pre-sintomatico è la malattia di Huntington.

A questo scopo può essere utile l’ascolto delle famiglie?
È molto importante e ci sono organizzazioni che si occupano anche di questo, come il Centro nazionale per il coordinamento delle malattie rare e la Fondazione Lega italiana ricerca Huntington, che fa un’intensa opera di sensibilizzazione. Migliorare il dialogo con le persone che hanno un problema attraverso il counseling psicologico e genetico è fondamentale per accompagnarle verso un risultato. Se si migliora l’assistenza anche attraverso questo aspetto forse si accresce anche la possibilità di prevenzione.

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