Una cultura dell’informazione a servizio del cittadino

Con la pandemia, la produzione di notizie è aumentata ma anche il bisgono di un giornalismo attendibile. La soluzione al problema delle "bufale" è la diffusione di una cultura dell'informazione. L'intervista a Marica Spalletta, professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi.
(da Pexel)

Nell’anno della pandemia i media hanno moltiplicato la loro offerta, portando più notizie ma anche meno controlli sulla loro veridicità. Il Rapporto Ital Communications-Censis su «Disinformazione e bufale durante la pandemia: il ruolo delle agenzie di comunicazione» evidenzia il bisogno di una comunicazione affidabile e competente, libera e pluralista. Abbiamo intervistato Marica Spalletta, professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Link Campus University.

Dal Rapporto emerge che nell’ultimo anno si è moltiplicata così tanto l’offerta comunicativa dei media che si è arrivati a parlare di «infodemia comunicativa». In che modo i media possono essere risorsa, garantendo un’informazione corretta ma anche libera e pluralista?
In quest’ultimo anno abbiamo assistito a un dato molto positivo, al risvegliarsi di un dibattito pubblico sulla centralità dell’informazione e sulla centralità dell’essere informati. Mai come in questo anno ci siamo resi conto di quanto sia fondamentale avere delle notizie che siano aggiornate e in grado di seguire il flusso degli eventi. Questa è stata sicuramente una conquista – o una riconquista – che però si lega a un ruolo di primo piano che i media hanno avuto durante la pandemia.

Insieme alla giornalista Vania Del Luca abbiamo realizzato il libro «Pandemie mediali» dove proviamo a fare il punto sul ruolo dei media in quest’anno, senza alcuna ambizione di analisi verticale perché siamo ancora immersi nel fenomeno per poterlo analizzare verticalmente, ma in una lettura orizzontale. Quello che emerge dai vari contributi è la rinnovata centralità che i media hanno avuto. Nel mio contributo scrivo che i media sono stati un rimedio. Lo sono stati quando si trattava di colmare i vuoti relazionali che le misure di contenimento dell’emergenza hanno imposto, pensiamo alle app che hanno riempito i nostri smartphone, che sono diventate come stanze delle nostre case in cui incontravamo quelle persone che altrimenti non avremmo potuto incontrare. Sono stati un rimedio perché ci hanno tenuti informati.

Nel dibattito pubblico è ricorso spesso il termine «infodemia» che mette in luce come anche l’informazione non sia stata risparmiata dal virus della pandemia. C’è stato un incremento dell’informazione, che è andato di pari passo – e il rapporto Censis lo mette bene in luce – con il diffondersi di quelle che oggi raggruppiamo intorno al termine fake news. Quando aumenta l’informazione, aumenta anche il rischio di incorrere in notizie false e, tanto l’overload informativo, quanto la presenza di così tante informazioni non vere, genera confusione e la confusione è l’ambiente nel quale si genera paura.

Marica Spalletta, professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Link Campus University (da profilo Facebook)

Qual è l’antidoto?
Laddove c’è stata una ripresa di interesse nei confronti dell’informazione, ci deve essere qualcosa che viene anche dalle fonti di informazione e i media, dopo avere appurato di essere stati un rimedio, devono però rimediare loro stessi perché se siamo arrivati a una situazione di così forte disaffezione nei confronti dei media giornalistici professionali, ciò deriva anche da una serie di errori che sono stati commessi sul fronte della produzione e diffusione delle notizie.

Qual è il modo per arginare il diffondersi delle fake news?
Nel momento in cui la persona che vive nell’ecosistema mediale del terzo millennio trova una notizia, deve essere in grado di percepirne il tasso di verità, ma per fare questo deve avere un termine di paragone credibile. Per arginare le fake news serve un’informazione credibile e questa devono farla i media giornalistici.

Il 56,2% degli italiani ritiene che per combattere le fake news si debba rivedere il quadro normativo e sanzionatorio. È d’accordo?
È giusto che l’Ordine dei Giornalisti intervenga perché è la figura di riferimento voluta dal nostro ordinamento, però sanzionare tampona il caso sul momento ma serve un percorso più strutturale che non può che essere di tipo culturale. Creare una cultura dell’informazione significa anche ridimensionare il peso e il ruolo delle fake news. Se l’informazione non viene pensata a servizio del cittadino, viene meno il suo ruolo sociale.

Il 50,7% dei giovani ha definito la comunicazione sulla pandemia «ansiogena». A suo parere, i giovani sui social hanno creato la narrazione o in qualche modo l’hanno subita?
Tutti noi, non solo i giovani, abbiamo subito una narrazione che proveniva all’esterno, ma chi l’ha prodotta non erano le istituzioni o i media, era il virus stesso che ha dettato l’agenda della pandemia. Ci siamo trovati a gestire un’agenda che per la prima volta è stata dettata da un agente esterno e imprevedibile.

Un anno fa c’èra la necessità di far sì che le persone acquisissero consapevolezza della situazione di crisi in cui ci trovavamo quindi, in quei primi mesi, la comunicazione ha dovuto essere ansiogena per far acquisire la consapevolezza dello stato di crisi. Ma questo stato di massima allerta ha assunto le forme di una dimensione permanente che ora comincia a diventare difficile da gestire dal punto di vista comunicativo e questo genera confusione e ansia.

Non penso, però, che i giovani siano più esposti degli adulti. Quanto ha pesato, infatti, per un giovane dovere trasferire parte delle sue relazioni online, in un ambiente del quale è nativo, rispetto ai non nativi digitali? Oggi un adulto che non ha familiarità con Meet, Zoom e non ha un profilo social è tagliato fuori dalle dinamiche relazionali. I giovani, da questo punto di vista, hanno anticorpi che i grandi non hanno. A loro volta, i grandi ne hanno altri che hanno consentito di vivere meglio questo periodo.

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