Cuba senza il carisma di Fidel
Era il 1967 quando Ortensia, 24 anni appena compiuti, lasciò Cuba per non farvi mai più ritorno. La causa? La rivoluzione o meglio la dittatura inaugurata da Fidel Castro. La notizia della morte del leader maximo l’ha raggiunta a Dallas, ma non ha esultato come migliaia di suoi connazionali a Miami. «Mi è difficile saltare di gioia per un morto, anche se quel morto è Fidel, colui che nel nome di un suo progetto ideologico mi ha tenuta separata dai miei genitori fino al 1981 e da mio fratello fino al 1990. Dopo 14 anni ho rivisto i primi e dopo 23 il secondo».
Ortensia non era una capitalista americana, tutt’altro. Quando la rivoluzione scoppiò lei vi aderì al 98% convinta che avrebbe davvero cambiato il volto del Paese. E quando Fidel attraversò l’isola dall’est all’ovest, lei era lì con la sua gonna nera e la camicia rossa a testimoniare il suo sostegno e il suo appoggio al nuovo progetto politico. E invece la cruda realtà del regime piombò con violenza a casa sua: alcuni zii, che sotto il governo Batista erano agenti del servizio segreto, vennero giustiziati contro un muro. La rivoluzione di Ortensia si infranse davanti a quel muro.
E quando Kennedy, dopo il fallimento della rivolta della baia dei porci, mise a disposizione dei voli per chi voleva lasciare Cuba, questa giovane ragazza compilò il formulario assieme ad altre due milioni di persone. Ha dovuto aspettare cinque anni per poter salire la scaletta di quell’aereo.
Nella storia di questa donna c’è tutta la tragedia di chi è fuggito dal carisma rivoluzionario e in chi è rimasto c’è la tragicità di un’esistenza condotta con uno stipendio di 25 dollari al mese, con adunanze obbligatorie in omaggio al partito per non rischiare il lavoro, con infrastrutture sempre più fatiscenti. Un chirurgo a cui si rivolgono decine di pazienti di altri Paesi latino americani per poter operare si è fatto portare lampadine elettriche dalla sua paziente. Lo stato non le fornisce; mentre Ester a cui è stato consentito di possedere il salone di bellezza dove lavora, un piccolo segno di disgelo sulla proprietà privata, dovrà versare al governo un terzo dei suoi guadagni per le attività propagandistiche.
Se Fidel con il suo profilo carismatico e i discorsi inspirati riusciva ad esercitare un fascino sulla popolazione, lo stesso non può dirsi del fratello Raul: pragmatico, poco idealista, fedele esecutore dei comandi del fratello. A lui toccherà traghettare l’isola dalla fase carismatica alla storia contemporanea. Lo farà avvicinandosi ancora di più alla Cina e utilizzando il modello misto che vede da una parte la fedeltà al socialismo e dall’altra l’adesione al sistema liberista? O si orienterà a coltivare alleanze con il presidente del Venezuela, Maduro?
A questo proposito le scuole cubane sono state invitate ad apporre la loro firma su un documento come espressione di fedeltà e amicizia con la rivoluzione chavista. Una giovane che si è rifiutata di farlo perderà la borsa di studio per l’università e la possibilità di specializzarsi e lavorare all’estero. Perché se è vero che il governo cubano invia medici specializzati in tante nazioni disagiate è anche vero che mogli e figli di questi ambulanti dell’assistenza restano sempre sull’isola, vincolati dal monito di non poter scappare.
Il sogno di Fidel e di Raul continua a fare i conti con il valore della libertà e della dignità delle persone. Certo il disgelo delle relazioni con gli Stati Uniti, nonostante che Fidel abbia poi smentito e condannato il discorso di Obama ai cubani, costringe già a rivedere posizioni troppo restrittive e troppo ristrette. Mentre è boom degli statunitensi che da turisti vogliono fare un viaggio nel tempo per ritornare alla cultura degli anni ’50, non sono pochi i cubani che vogliono abbandonare l’isola, spinti a ciò dal divario tra chi amico del governo gode di vantaggi e opportunità e chi invece nato nella povertà, morirà ancor più povero.
«Chi resterà forse sarà più pronto ad aprirsi e ad aprire l’isola, ma saranno soprattutto anziani – ribadisce Ortensia -, perché anche i giovani scalpitano per andare via. Tuttavia non è economicamente sostenibile, perché ad esempio solo per il passaporto bisognerebbe spendere ben 800 dollari». Un funzionario cubano impiegato in un’organizzazione mondiale operante su New York spiega che ha chiesto con un anno di anticipo il visto all’ambasciata per partecipare ad una missione in Canada, ma alla fine ha dovuto rinunciarvi per il governo non ha fatto in tempo a consegnargli i documenti. «La burocrazia è una trappola mortale».
Fidel è stato veramente un leader, un uomo di grandissima levatura che ha saputo galvanizzare un popolo e che, malgrado tutto, ha saputo offrire orizzonti ideali a decine e decine di milioni di persone. Ma le contraddizioni che Fidel lascia, soprattutto per chi le guarda anche dalla sponda statunitense, sono davanti agli occhi del mondo: desideroso dell’uguaglianza, lascia in eredità un divario economico notevole tra il suo stesso popolo; teorizzatore dell’abolizione della proprietà privata fa i conti con uno stato sempre più avido e accaparratore; propugnatore della libertà non accetta dissidenti, che pagano con la prigione e con la morte, mentre proibisce ai cubani fino all’età 45 anni di lasciare l’isola.
Un ingegnere di 46 anni approdato a Miami negli anni ’90 racconta: «C’è una cosa che il regime di Fidel ci ha insegnato e che non dimenticheremo mai: l’essere ipocriti e l’essere ladri. In questi giorni assisteremo a scene strazianti e a raduni di piazza per la morte del Comandante, ma la gente non può fare altro, pena la perdita di lavoro. Io stesso l’ho fatto per anni pur non convinto e contestando queste pratiche. L’altra arte appresa è quella del furto. Lavorare negli uffici significa sottrarre qualsiasi cosa a chi ti ha già derubato e cioè lo Stato. E nessuno vede in questo un crimine».
È anche questa la Cuba che Raul Castro eredita, consapevole che morto Fidel è morta un’epoca e forse anche la stessa rivoluzione da lui propugnata, che ha fatto sognare a distanza i ribelli al capitalismo e che allo stesso tempo, su quello stesso altare, ha sacrificato un popolo. «Hasta la victoria siempre» varrà ancora nel XXI secolo?