Crollo del Rana Plaza

Continua la corsa contro il tempo per il salvataggio di vite sempre più appese ad un filo. Sono trecento i morti accertati, ma un numero imprecisato è ancora sotto le macerie del palazzo sede di cinque grandi fabbriche tessili, dichiarato inagibile proprio il giorno prima del crollo. La solidarietà di papa Francesco
Crollo del Rana Plaza

Nel corso dell’Angelus di ieri papa Francesco ha lanciato un appello chiaro sulla tutela dei diritti dei lavoratori. Il riferimento, sebbene Francesco non abbia fatto nomi, era chiaramente rivolto alla tragedia in Bangladesh, a cui ormai ci si riferisce come il Rana Plaza, dal nome del palazzo di Sawar, all’estrema periferia della capitale Dhaka, crollato nei giorni scorsi inghiottendo un numero imprecisato di persone che vi lavoravano. Il papa aveva trasmesso un altro messaggio, questa volta facendo riferimento ai fatti e al luogo, su Twitter, con un invito a tutti coloro che lo avrebbero letto: «Unitevi a me nella preghiera per le vittime della tragedia di Dhaka, che Dio conceda conforto e forza alle loro famiglie».

Nella capitale del Paese asiatico continua la corsa contro il tempo per il salvataggio di vite sempre più appese ad un filo. Sebbene molti siano stati salvati, oltre ai circa trecento morti accertati, sono ancora moltissimi coloro che si trovano sotto le macerie di un palazzo che è diventato, in questi giorni, l’immagine del volto tragico del cosiddetto outsourcing, imposto dalle leggi della globalizzazione. Il Bangladesh, infatti, è, dopo la Cina, il più grande esportatore di prodotti tessili del mondo. Basta guardare alle tante etichette su camicette, magliette e jeens che acquistiamo anche in Italia specialmente sui banchi dei mercati rionali e non solo. Sono circa quattromilacinquecento le fabbriche, sparse in diverse parti del Paese, che impiegano quasi due milioni di persone (con cifre ovviamente approssimative) e che assicurano il 10 per cento del Pil locale con una esportazione dei prodotti pari all’80 per cento.

Ovviamente, per assicurare prezzi competitivi non si bada alle condizioni di lavoro in un mondo dove le legislazioni in merito sono approssimative. Le condizioni di lavoro sono disumane: turni anche di dodici ore lavorative per una paga mensile pari a 30 euro, in grado di sfamare molto bocche nelle famiglie locali, ma, ovviamente, molto al di sotto di un qualsiasi stipendio che voglia perlomeno avvicinarsi a criteri di equità e giustizia.

Al Rana Plaza, avevano sede cinque grandi fabbriche tessili, che fornivano prodotti per conto di grandi catene di abbigliamento, come la Primark. Il palazzo era stato dichiarato inagibile, al termine di una ispezione conclusasi proprio il giorno prima del crollo. La costruzione, fra l’altro, era sorta su uno stagno, tipico della zona del Bengala, da Kolkata (che si trova in India) fino a tutta la zona che costituisce il Bangladesh. Per dare un’idea della situazione, è sufficiente pensare che ogni casa in questa parte del sub-continente indiano (spesso costruita a mo’ di palafitta) ha un suo stagno. Il prosciugamento non assicura alcuna consistenza al terreno sabbioso tipico della zona. Nello stesso palazzo crollato aveva sede una filiale della Bangladesh rural advancement committee (Brac), una delle Ong più grandi del mondo che opera in circa settantamila villaggi del Paese asiatico per promuovere progetti di sviluppo agricolo, microcredito, scuole, ospedali e difesa dei diritti umani. Nessuno degli impiegati della Brac ha perso la vita nel crollo. Dopo la certificazione di inagibilità del palazzo, infatti, i suoi impiegati sono rimasti a casa, salvandosi tutti.

Coloro che lavorano, invece, per conto delle ditte tessili, sono oggetto di ricatti da parte dei datori di lavoro che minacciano di non pagare gli arretrati o di togliere tre giorni di paga a chi è assente per un giorno.

Dopo che, nei giorni scorsi, circa diecimila lavoratori di questo settore erano scesi in piazza per dimostrare contro i propri datori di lavoro, la polizia ha arrestato i proprietari di due delle fabbriche tessili ospitate nel Rana Plaza. Mahbubur Rahman Tapas e Blazul Samad Adnan, titolari della New Wave Buttons e New Wave Style, sono accusati di ricatto e di aver costretto gli impiegati a recarsi al lavoro, nonostante il giorno precedente l’edificio fosse stato dichiarato inagibile. Non si tratta, come è emerso in questi giorni, del primo caso di questo tipo, né in Bangladesh né in altri Paesi dell’Asia. Nel novembre scorso un’altra fabbrica, la Tazreen Fashion, aveva preso fuoco e, a causa dell’unica via di uscita sbarrata, c’erano stati molti morti.

Il problema, tuttavia, non è solo legato alle norme di sicurezza approssimative e, quasi mai, osservate in questi Paesi, e neppure a condizioni di lavoro che assomigliano al latifondo agricolo se non a vera e propria schiavitù. Si tratta di situazioni che interpellano ciascuno di noi. L’acquisto di prodotti provenienti da queste fonti produttive contribuiscono a continuare queste forme di neo-schiavitù. Resta vero che si tratta di Paesi che con questi contratti riescono ad incrementare il loro Pil, oltre che ad assicurare stipendi a fasce della propria popolazione che resterebbero senza lavoro e, dunque, senza niente di cui vivere. Purtroppo, però, non esiste una adeguata normativa internazionale che monitorizzi questi contratti ed assicuri il rispetto di normative sia a livello di contratti equi che di condizioni di lavoro adeguate.

L’acquisto di prodotti provenienti da questi mercati in outsourcing richiederebbe anche da parte nostra, come consumatori, di richiedere un tale monitoraggio pena il boicottare tali prodotti. Sembra assurdo, ma Gandhi riuscì a debellare la potenza coloniale inglese proprio giocando su questo e proponendo la produzione di tessuti locali, addirittura a mezzo dell’arcolaio, invece dell’uso di ciò che gli inglesi producevano con materie prime e forza lavoro indiana per vendere su mercati europei o rivendere a chi li aveva prodotti in India.

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