Cristo patì a Sperlonga
Le meraviglie pagane della villa laziale dell’imperatore “contaminate” dalla vicenda evangelica. Lo racconta la direttrice del museo e dell’area archeologica.
Gesù Cristo venne crocifisso sotto il regno di Tiberio. Entrambi furono contemporanei, senza che mai si fossero incontrati fra loro. Duemila anni dopo, in qualche modo, questo incontro è avvenuto, e proprio “a casa” dell’imperatore, tra i ruderi della sua villa marittima di Sperlonga. Qui, infatti, le ultime scene della vita terrena del Figlio di Dio hanno avuto come attori, lo scorso aprile, gli stessi dipendenti del locale museo archeologico. Già durante il breve tragitto in auto dalla stazione di Fondi-Sperlonga, mi ragguaglia su questa originale rappresentazione l’amica Marisa de’ Spagnolis, attuale direttrice di questo museo famoso per le straordinarie sculture rinvenute in loco oltre cinquant’anni fa, veri capolavori di arte ellenistica.
Decisamente, questa puntata sulla costa laziale è all’insegna del mito, quello cantato dai poemi omerici e materializzatosi nel candido marmo di eroi come Ulisse, Achille, Diomede, e di mostri come Polifemo e Scilla, “arredo” eccellente della villa che Tiberio ereditò dalla madre Livia, moglie in seconde nozze di Augusto. Dall’alto della via Flacca, che scorre a mezza costa, il panorama è un incanto: cielo, mare e una piacevole brezza che scompiglia le chiome degli ulivi. Scendiamo per un sentiero ombreggiato dalla macchia mediterranea fino ai resti della sontuosa dimora, i cui ambienti si sviluppano per oltre trecento metri lungo la spiaggia di levante. A pelo d’acqua, sul fianco del promontorio Ciannito, s’apre un’ampia caverna naturale: adattata a ninfeo, offriva delizioso soggiorno estivo all’imperatore e alla sua corte.
Per raggiungerla costeggiamo un bacino di acqua dolce dove nuotano pigramente numerose carpe. E proprio all’interno della spelunca (da cui il toponimo Sperlonga) giganteggiavano i gruppi di Polifemo addormentato in procinto di essere accecato da Ulisse, e di Scilla nell’atto di aggredire la nave dell’eroe e di divorarne i compagni. Lateralmente all’ingresso dell’antro erano collocati due gruppi minori: Ulisse sorreggente Achille morto, e ancora Ulisse con Diomede di ritorno da Troia dopo averne trafugato il Palladio.
«Immagina – indica Marisa – il colpo d’occhio scenografico offerto da queste composizioni che un cultore d’arte qual era Tiberio commissionò ai più eccelsi scultori del suo tempo: Agesandro, Atenadoro e Polidoro, gli stessi che realizzarono il Laocoonte. Quattro gruppi che avevano come soggetto le imprese del re di Itaca: perché la scelta di questo personaggio? «Per dei motivi ben precisi. Tiberio apparteneva alla gens Claudia, che si faceva discendere da Telegono, figlio di Ulisse e della maga Circe. Quindi, esaltando lo sposo di Penelope, egli esaltava sé stesso e la sua gens. Che poi l’imperatore abbia soggiornato qui ce lo assicura Svetonio a proposito di un incidente occorsogli nel 26 d. C.: mentre stava banchettando in una grotta della sua villa detta Spelonca, all’improvviso precipitarono dei massi dall’alto, facendo alcune vittime e mettendo a repentaglio la stessa vita dell’imperatore, che abbandonò il luogo preferendo ad esso il volontario “esilio” di Capri».
Risaliamo verso il museo, costruito nel 1963 per custodire quanto rimane dell’eccezionale complesso scultoreo che adornava la dimora imperiale. L’attenzione viene attirata soprattutto dai frammenti dei due gruppi principali. «Gli originali – spiega Marisa – erano bronzi che gli artisti rodii copiarono in marmo. La testa di Ulisse, parte del gruppo di Polifemo, è un capolavoro a sé: da qualunque punto la si guardi cambia espressione». Troneggia nella sala la grandiosa ricostruzione in resina del Polifemo realizzata da Vittorio Moriello, lo scultore che si sobbarcò l’impresa veramente titanica di assemblare ben 15 mila frammenti delle statue rinvenute. «Nei depositi ne abbiamo ancora 250 cassette piene. Per proseguire il lavoro di ricostruzione ho calcolato che occorrerebbero oltre due anni. Molti pezzi mancanti potrebbero essere recuperati con qualche campagna di scavo. Senza contare quelli che varrebbe la pena rintracciare nei depositi del museo archeologico di Napoli, in aggiunta alla statua di Andromeda già da me riconosciuta come proveniente da Sperlonga. Ma oltre ai finanziamenti necessari, occorrerebbe trovare il tempo per queste ricerche, il che non è semplice perché lavoro su mille fronti».
Marisa però non è tipo da fermarsi di fronte agli ostacoli, lei che privilegia il rapporto, promuove la collaborazione, ma quando occorre sa anche essere determinata: qualità già messe alla prova quando era incaricata di tutelare i beni archeologici della Valle del Sarno, notoriamente feudo della camorra, ma necessarie anche ora che è alle prese con i problemi di gestione di un museo e un’area archeologica di tale prestigio, nell’attuale regime di austerity.
Per tornare a questa passione di Cristo realizzata “in famiglia” e con pochi mezzi, «era un antico desiderio del personale del museo. Tutti hanno dato il meglio di sé, trasformati in attori con l’aiuto di una regista; i costumi ce li siamo fatti prestare e il comune di Sperlonga ci ha messo a disposizione gratis le attrezzature necessarie. Oltre 1500 gli spettatori nei tre spettacoli, sfidando il freddo e l’umidità della notte: per loro abbiamo allestito lo spazio del quadriportico, mentre per le varie scene gli ambienti della villa disposti a più livelli hanno offerto una spettacolare scenografia. Impensato il successo di pubblico e di critica, nulla da invidiare a una vera compagnia teatrale. Per l’intero personale è stata un’occasione non solo per compattarsi, mettendo da parte le piccole guerre interne, come spesso accade, ma anche per una crescita culturale».
Da quando dirige questo museo, e precisamente dal maggio 2010, Marisa è riuscita a realizzare quasi dal niente conferenze per far conoscere i miti legati alla zona, mostre archeologiche, sul Risorgimento, sull’arte contemporanea ispirata all’antico, sulle foto della passione di Cristo scattate dall’artista irlandese canadese André Durand. Alla sua iniziativa si devono il gruppo e l’associazione Amici del museo di Sperlonga. Tanti ancora i progetti in cantiere, perché «il museo non dev’essere qualcosa di cristallizzato – sostiene l’amica –, ma un centro di vita culturale. Stiamo cercando inoltre delle soluzioni per eliminare le barriere architettoniche nell’edificio e nell’area archeologica».
E tutto ciò, senza trascurare il resto del territorio di sua competenza: «Sto vivendo un periodo tra i più ricchi della mia vita dal punto di vista professionale. A San Cesareo ho scavato la villa dove Cesare scrisse il suo testamento e Massenzio ricevette la notizia della sua elezione a imperatore, villa con mosaici stupendi. Dopo dieci anni, ho riaperto il mausoleo di Munazio Planco a Gaeta. A Itri ho scoperto il santuario di Ercole».
Certo Sperlonga è un luogo speciale per Marisa: «Ho cominciato i miei primi scavi proprio qui, ho respirato l’atmosfera magica delle scoperte e della ricostruzione dei gruppi omerici, ho visto nascere questo museo. Per cui mi sembra estremamente gratificante finire dove ho iniziato, sognando una vita dedicata all’archeologia».
L’ultima novità (siamo ancora in periodo natalizio): in un angolo di questo museo d’arte classica pagana, è allestito un originale presepe, la cui grotta, senza ombra di dubbio, richiama il ninfeo di Tiberio. E poi uno dei pastori non ha forse le fattezze dell’imperatore?