Cristiani sotto le bombe
È una realtà più che mai complessa quella che si presenta davanti agli occhi di chi visita Baghdad. Accanto al sollievo per la liberazione da un dittatore della specie più terribile, si unisce l’interrogativo sull’avvenire del paese. In primo luogo se lo chiedono i cristiani. In effetti, in un paese senza regole, chi grida sembra prevalere: oggi banditi e fondamentalisti. I cristiani, ricchi del loro imperativo morale dell’amore e della necessità di mediare, si ritrovano in ogni caso perdenti. Apparentemente. È la prova più grande per una chiesa minoritaria. Ne ho raccolto alcune voci. USTIONATO Mazen era un impiegato, ormai disoccupato, del ministero del commercio. “Il 25 marzo – racconta – la guerra era cominciata da pochissimi giorni. Stavo preparando da mangiare coi miei colleghi, quando un missile è sfrecciato in strada, per schiantarsi poco più in là. Lo spostamento d’aria è stato così violento che la bombola del gas è esplosa. Mi sono ritrovato una torcia viva: vestiti, scarpe, barba. Avevo faccia, gambe, braccia e mani completamente ustionati. Siamo corsi all’ospedale: eravamo in otto dello stesso ufficio. Ho dovuto aspettare, nonostante la gravità delle ustioni. Ma le medicine sono finite, e sono stato costretto, con un altro collega gravemente ustionato, a cercare un altro ospedale. Ma c’era una sola ambulanza” Ho ceduto il posto all’altro, un musulmano sciita, perché mi sono ricordato che, come Gesù aveva sofferto, anch’io dovevo farlo. Mi è tornato in mente un canto di quaresima: “Quanto era duro il cammino verso la croce””. “Nell’ospedale – continua -, mio padre Yusef cercava di risollevarmi, e io volevo resistere al dolore. Ma speravo che lui si allontanasse, per poter finalmente gridare. Mi hanno allora dato dei calmanti, tra cui della morfina, ma non mi davano sollievo. Mi calmava solo il ripetere i canti della quaresima. E anche il ricordo di alcune pagine del vangelo. Eppure un giorno mi sono sentito abbandonato, anche da Dio. Avevo il volto così gonfio che non riuscivo nemmeno a vedere. Mi sono ricordato di una frase di Gesù: “Non la mia volontà sia fatta, ma la tua”. Mi sono detto che dovevo amare al di là del dolore. E così è stato. La guarigione è stata più rapida del previsto, perché tanti hanno pregato per me”. BOMBARDATO Nella sede del patriarcato caldeo, situata di fronte al Ministero dell’aviazione – un mig è stato issato su un piedistallo dalla follia monumentale della dittatura -, incontro mons. Emmanuel-Karim Delly, vescovo emerito di Baghdad per la Chiesa caldea: corporatura fragile, ieratica barba bianca, modi affabili e sguardo indomito. È uno dei massimi esperti della cristianità in Iraq. È con questa lente di ingrandimento che ripercorre le vicende degli ultimi mesi. “Gli americani e gli inglesi hanno affermato di voler liberare l’Iraq dalla dittatura di Saddam – esordisce -. In effetti quella era una dittatura fatta di stragi e di condanne sommarie: tutti dovevamo sopportare ciò che veniva compiuto, impotenti. Noi, come responsabili dei nostri fedeli, non potevamo fare altro che tenerci in disparte, non appoggiando il regime, e cercare di “calmarlo”. Con l’arrivo della guerra, la situazione è cambiata. Il popolo si aspettava una nuova vita, ma finora non l’abbiamo vista. Oggi stiamo peggio di ieri, e forse meglio di domani”. E allora, quale futuro per i cristiani d’Iraq? Se lo chiede anche mons. Delly: “I nostri antenati – spiega – hanno patito periodi peggiori dell’attuale. E hanno sopportato tutto con pazienza ed eroismo, coabitando con i loro fratelli musulmani. Anche noi dobbiamo imitare i nostri padri. In tante occasioni collaboriamo insieme a quei musulmani, e sono tanti, che ci vogliono bene, ci rendono visita e noi li ricambiamo. Da duemila anni stiamo qui, e credo che lo saremo ancora per altrettanti secoli”. Mons. Delly racconta qualche episodio della convivenza. “Noi del patriarcato partecipiamo a ogni festa dei musulmani – dice -, per festeggiare i nostri confratelli in occasione delle loro ricorrenze principali, come anche loro fanno. L’altro giorno, faccio un altro esempio, quando alcuni fondamentalisti hanno attaccato le fabbriche dei cristiani, mi sono rivolto ai capi musulmani, che mi hanno ricevuto con grande benevolenza e hanno scritto delle forti lettere a coloro che ritenevano potessero fare qualcosa”. Arriviamo a parlare della notte del 23 marzo. La testimonianza è senza fronzoli: “Per la seconda volta hanno bombardato i palazzi di fronte. Nel ’91 104 finestre sono finite in frantumi. Il giorno seguente alcuni dei nostri sacerdoti caldei sono venuti, non senza pericolo, e mi hanno costretto a lasciare il patriarcato. La stessa cosa si è ripetuta in questa seconda guerra. In tanti mi avevano detto di trasferirmi, ma io ho risposto: “Rimarrò al mio posto, devo dare l’esempio”. La notte in cui hanno bombardato il ministero, ero nella mia stanza. Questa volta non solo si sono rotti i vetri, ma le finestre stesse sono state divelte. E il Signore mi ha salvato ancora una volta”. COLPITO Il quartiere di Dora-Mecanic è povero ma dignitoso. L’esterno delle abitazioni pare più dimesso di quanto poi non manifesti l’interno: la polvere appiattisce tutto. A casa dei Jirjis arrivo attraversando un ampio spazio di pietre, immondizie e carri armati distrutti. Nazar, ingegnere chimico, il papà, racconta: “Durante la guerra, in tutto il quartiere avevamo paura che le bombe cadessero sulle nostre case. Ma Gesù e Maria erano con noi, e noi ora stiamo bene. È caduto un missile sulla nostra casa, ma non è esploso. E gli americani sono riusciti a disinnescarlo”. Era l’alba di venerdì 4 aprile quando i Jirjis presero la decisione di evacuare Baghdad. Racconta la figlia maggiore, Rana: “In parrocchia abbiamo seguito la via crucis. Mentre uscivamo, ho detto a mia madre: “Sento che stiamo rivivendola”. Con la nostra vecchia macchina scassata siamo partiti subito dopo per il nord. Avevo paura. Ho visto un quadro della Madonna e l’ho pregata: “Per favore, se è giusta la decisione di lasciare la casa, dacci un segno. Il giorno dopo, sabato, è caduto il missile della contraerea irachena. Ho la certezza che Gesù ci ha salvato dalla bomba”. Nader, l’ultimo figlio: “Quando i miei mi hanno comunicato che partivamo, sono rimasto perplesso, perché volevo rimanere nel quartiere. Ma ho preso questa decisione come volontà di Dio. Il missile è caduto proprio sopra la mia camera, ma non ha scalfito le due corone del rosario appese ai muri: il missile si è fermato in mezzo ad esse”. Durante la cena, capisco come questa famiglia sia in certo modo il prototipo delle famiglie cristiane dell’Iraq, sospesa tra l’amore per la patria e il timore di restarvi nell’attuale incertezza. L’emigra-zione è dietro l’angolo. Il papà soffre nell’indecisione, ricordando come nella città in cui avevano abitato, Ramadi sull’Eufrate, fossero i soli cristiani presenti. Quando partirono per Baghdad, i musulmani piansero a lungo per la loro partenza. VIOLATO All’Istituto biblico attiguo al solo seminario presente in Iraq, conosco un artista che mi introduce in una sala colpita da numerose schegge di obici, indirizzati contro le cinque batterie di missili terra-aria piazzate contro il muro di cinta. Guarda caso, la sola sala colpita dell’istituto è quella che più parla di pace, e cioè l’atelier di arte sacra. Il direttore della sezione, di nome Bassam, sulla quarantina, stava terminando due quadri di buona fattura raffiguranti la guerra e la pace. Un primo, più leggibile, contrapponeva un soldato con la testa tra le mani per disperazione e una bambina che gioca con le colombe della serenità. Il secondo dipinto, trafitto da alcune schegge, ha come titolo La cena dopo l’ultima cena. È simbolico: vino e pane, gioco d’azzardo e sesso, una belva di memoria apocalittica, la torre alata dell’antica Babilonia” Un po’ ermetico, a dire il vero, a simboleggiare forse l’incertezza che abita tanti iracheni. Ma una cosa è chiara nel dipinto: la salvezza viene dal Cristo. STREMATE E, infine, nel mio giro alla conoscenza della comunità cristiana di Baghdad, mi ritrovo a visitare una piccola azienda, nata grazie alle “adozioni a distanza” delle Famiglie nuove del focolare. Vi lavorano una decina di donne. Rafà, una affabile donna sulla trentina, ne è la responsabile: “Abbiamo iniziato a lavorare nei primi anni Novanta, come progetto in favore dei bambini bisognosi e poveri di questo quartiere di Dora. Tale iniziativa ha potuto essere realizzata grazie agli aiuti provenienti dall’Europa. Il nostro programma si basa sulla “cultura del dare”, in prima persona lavorando per i nostri bambini. Col nostro lavoro vogliamo “vedere Gesù” in loro: penso che sia per questo che non abbiamo mai chiuso, nonostante gli embarghi e le guerre”. Le fa eco Nuhad, addetta al cucito: “La mancanza di elettricità non ci aiuta nel lavoro, ma cerchiamo di dare tutto quello che possiamo”. E Sahira: “Sento che stiamo offrendo qualcosa che giova alla vita dei bambini. Perciò provo una grande gioia”.