Cristiani e politica. Oggi
“È stupido non sperare”, pensò. “E credo che sia peccato”. Così Hemingway nel Il vecchio e il mare.
E così noi cristiani d’Italia nel presente cambiamento d’epoca!
La prima constatazione che colpisce, su questo argomento, è la percezione di un risveglio dei cattolici sul fronte della propria rappresentanza in politica. Era da troppo tempo che non era argomento politically correct, stretti tra la nostalgia di un partito tutto nostro (?) e la evidente difficoltà di percepire significativi fondamenti comuni.
Ne parla Civiltà cattolica, ne parlano i movimenti, ma se ne parla anche in circoli informali che si formano spontaneamente qua e là richiamandosi secondo filiere di diverse reti. Rinascono qua e là luoghi di formazione abbandonati troppo presto da diocesi e parrocchie che, dopo la crisi della Democrazia Cristiana, non hanno avuto la pazienza di investire forze e contanti in una dimensione necessaria per essere evangelicamente incisivi.
Allora che fare, qual è la dimensione profetica che possiamo aggiungere come nostro peculiare contributo? A mio parere due no e due sì.
No, a rifare un rassemblement, una “parte”. C’è stato un tempo, ma è passato dove la nostra unità è stata un collante importante che ha fatto da spartiacque nella storia d’Italia. Ora siamo chiamati a prendere parte, non ad essere parte, superando, specie in Italia dove la tentazione a volte è forte, il desiderio di contare pattiziamente, non per la forza delle idee.
No alle attese che la nebbia si diradi e che gli esperimenti con relativi possibili errori vengano fatti da altri, mentre la maggioranza di noi sta solo a giudicare. Le grandi anime di tutti i tempi hanno sempre spinto i contemporanei ad amare il proprio tempo a viverlo come quello giusto per fare grandi cose. La dimensione escatologica della nostra speranza ci insegna a esistere assieme a tutti gli esseri umani e quindi a vivere il presente come il tempo della Grazia.
Sì! Occorre un impegno ad approfondire quello che Bassetti, presidente della CEI, con una felicissima espressione, ha chiamato il diritto evangelico e tirarne le concrete conseguenze. I cristiani si muovono in virtù di questo ‘diritto evangelico’, senza tentennamenti, pur nella libertà delle diverse appartenenze: per esempio nel prendersi cura dei poveri, “perché anche quelli di cui non sappiamo nulla, appartengono alla Chiesa”, nel ricercare attivamente alternative credibili rispetto alla produzione delle armi…
Sì! Il secondo parallelo impegno è avere il coraggio di scegliere, nella attuale situazione di polarità, il dialogo prima di tutto. Prima di tutto dentro i nostri luoghi! Ci vuole coraggio nell’affrontare oggi nelle nostre assemblee piccole e grandi, ecclesiali o di movimento la polarizzazione delle posizioni, lo riconosco, ma c’è una responsabilità che ci appartiene. Siamo figli di un Dio trinitario, comunitario, che vive di diversità che si amano e, nella diversità, generano. Sta a noi avere il coraggio del “pensiero dialogico”, la concezione cattolica, di cui parla papa Bergoglio.
Questo esercizio non porta a una soluzione irenica che ucciderebbe le posizioni politiche, ma è una scelta forte che impedisce alle polarità di risolversi, manicheisticamente, in contraddizioni insanabili, altrettanto politicamente sterili. Al di là del guado ci arriveremo remando assieme, non buttando qualcuno per alleggerire la zattera.
La politica non è una partita a poker, dove chi vince prende tutto il banco, è un’arte che deve tendere al win-win, pur nella responsabilità diversa di chi governa e di chi è opposizione.
Un ultimo pensiero. «Date a Cesare quel che è di Cesare» presuppone il dovere di non smettere mai la ricerca di un dialogo, legale e casto, con chi ci governa, anche quando il gioco si fa duro… È una responsabilità legata alla nostra appartenenza allo stesso popolo, alla stessa storia. Ed è più cogente per chi ha il dovere di collaborare al sogno di un Dio ut omnes unum sint.