Cristiani in Medioriente, restare o partire?

Senza la loro presenza si rischia di veder crescere i conflitti e la violenza. La convivenza tra le religioni può insegnare l’amicizia, l’incontro e limitare l’aggressione dei fondamentalismi. La via della comunione non esclude il martirio
Persone in fuga da Mossul

Domenica abbiamo ascoltato queste drammatiche parole del papa sulla crisi iraqena: «Ho appreso con preoccupazione le notizie che giungono dalle comunità cristiane a Mossul in Irak e in altre parti del Medio oriente. Li questi fratelli, sin dall’inizio del cristianesimo hanno vissuto con i loro concittadini, offrendo un significativo contributo al bene della società. Oggi sono perseguitati, i nostri fratelli sono perseguitati, sono cacciati via, devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente. Assicuro a queste famiglie e a queste persone la mia vicinanza e la mia costante preghiera. Carissimi fratelli e sorelle tanto perseguitati, io so quanto soffrite, io so che siete spogliati di tutto. Sono con voi nella fede in Colui che ha vinto il male».

Il papa, con le sue parole miti e forti, pone con semplicità una delicatissima questione: restare o partire perché la persecuzione diventa assoluta e senza vie di fuga. Innanzi tutto appare di tutta evidenza l’errore della guerra iniziata undici anni fa dagli Stati Uniti e con il contributo anche dell’Italia. Un tragico disastro.

Già nel 1990, alla vigilia della prima guerra del Golfo, Giuseppe Dossetti in un intervento sul “Regno” denunciava le conseguenze catastrofiche che una guerra sconsiderata avrebbe avuto sulla presenza dei cristiani, in Iraq perché il fondamentalismo islamico ne sarebbe stato il vero vincitore.

E oggi tutto ha un compimento terribile, quasi inarrestabile. I racconti da Mossul sono sconvolgenti, ma anche le notizie da Gaza, dalla Siria e dalla Palestina fanno presagire una fuga dei cristiani, abbandonati dalla grande politica e abbandonati talvolta anche dalla chiese sorelle della riva nord del Mediterraneo, dall’Europa e dall’America latina.

Si pone oggi di nuovo l’alternativa tra restare o partire C’è una chiesa, la chiesa di Algeria, che in due riprese ha vissuto questa alternativa. La prima volta alla nascita della repubblica algerina (1962) metà della chiesa e dei cristiani tornarono in Francia senza capire che il futuro stava nello scommettere sul popolo algerino dell’islam. E chi è rimasto invece, sotto la guida profetica del cardinal Duval ha avuto ragione e ha imparato il dialogo, l’incontro, l’amicizia, la vita condivisa con tutti i fratelli musulmani.

La seconda volta si riconduce agli anni ‘90 quando la chiesa algerina ha vissuto la tragedia del terrorismo islamista che ha imposto di scegliere ancora una volta se restare o partire. La parabola di questa chiesa è stata la comunità monastica di Tibhirine, che ha deciso di restare di fronte alla minaccia terroristica e che con il suo martirio ha condiviso la sorte del popolo a cui era stata inviata.

Da quel martirio, dalla grazia discreta di quel martirio, è nato il sacramento dell’incontro, il dialogo, la forza della riconciliazione. Nel suo testamento spirituale frère Christian scrive:

«La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo e da idealista dica adesso quello che pensa, ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre per contemplare con Lui i suoi figli dell’Islam cosi come li vede lui tutti illuminati nella gloria del Cristo, frutto della sua passione, investiti del dono dello spirito santo, la cui gioia segreta  sarà sempre di stabilire la comunione, giocando  con le differenze».

La chiesa algerina, frere Christian, mons.Teissier hanno vissuto questa grazia. Sono rimasti, perché hanno compreso per grazia la forza inerme della loro missione, hanno imparato a caro prezzo la grazia della condivisione e della comunione con tutti.

Oggi i cristiani in Iraq e in tutto il Medio Oriente, e lo diciamo con timore e tremore, resteranno a confessare la fede, a cercare lo sguardo di Dio sul loro popolo, se comprenderanno che senza la loro presenza crescerà ancora di più la violenza e la guerra. Mai come in queste ore la via della pace è la via dei cristiani, in Oriente e in Occidente. Non possiamo chiedere agli altri ciò che noi stessi non intendiamo fare. E la via della comunione, la via della fraternità è la via del martirio.

Tutto si attiene alla politica della guerra da Gaza ad Aleppo, da Mossul a Teheran, da Tripoli a Gerusalemme. Ad essa i cristiani contrappongano non la fuga o la forza delle armi, ma la mitezza di chi sa che l’amore è più forte della morte, di chi guardando tutti questi Paesi con gli occhi di Dio, sa riconoscere la potenza del perdono, che spezza il potere delle armi e dell’odio.

Le chiese dell’Occidente, stanche e confuse di fronte a queste chiese della riva sud del Mediterraneo imparino la grazia del martirio, una grazia a caro prezzo, senza strumentalizzarle a disegni di politica ecclesiastica che hanno prodotto talvolta solo la morte degli innocenti.

In punta di piedi vengano in questa terra benedetta da Gesù per vedere con gli occhi di Dio il mistero dell’Islam e per accompagnare i passi di quei cristiani, che in forza della loro fede vogliono continuare a vivere in quella terra, che Dio ha donato loro.

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