Cristianesimo e Albania: Alla ricerca di un nuovo alfabeto

Che tipo di Paese attende papa Francesco? L’esperienza totalitaria ha distrutto il senso delle parole spalancando le porte all’ideologia liberista. La sfida di una vera inculturazione del Vangelo. Intervista a padre Armando Ceccarelli, gesuita per 13 anni in Albania.
Albania

Armando Ceccarelli è marchigiano come Matteo Ricci, il confratello gesuita che arrivò in Cina nel 1582 sperimentando una feconda inculturazione del Vangelo in quella civiltà lontana e ancora misteriosa. L’Albania è vicinissima all’Italia ma è anch’essa ancora da decifrare punto di frattura geopolitica sensibilissima come l’intera zona balcanica. Cosa ci può dire questo religioso italiano, per anni cappellano universitario a Roma e Cagliari, della sua permanenza in terra albanese ora che sta per tornare in Italia? Quale realtà incontrerà papa Francesco nel suo viaggio lampo del 21 settembre? Intervistiamo padre Ceccarelli è stato prima, per nove anni, rettore del seminario intediocesano di Scutari, nella formazione dei futuri preti di sei diocesi albanesi, a cui si aggiungevano il Montenegro e il Kosovo di lingua albanese. Negli ultimi quattro anni è stato più a contatto con la gente come parroco a Tirana.

Come è stato il primo impatto con questo Paese nel 2001?


«Il mio primo impatto non è stato facile, ma mi ha fatto affrontare aspetti importanti della nostra missione albanese. Da un lato la formazione in seminario seguiva lo standard indicato per tutti da Roma e quindi, che fosse a Scutari o altrove, per molte cose non cambiava molto. Inoltre ho trovato che tutti i seminaristi comunicavano in italiano, con l’impressione di un’accoglienza molto cordiale e benevola verso gli stranieri. Tutti aspetti che in apparenza dicono vicinanza. Dall’altro lato la lingua albanese non è di facile apprendimento, soprattutto se uno ha già una certa età, e la lingua è un canale di comunicazione importante per un rapporto personale educativo più schietto. Ma ho constatato che più crescevo nella conoscenza della lingua e più mi accorgevo delle differenze enormi che abbiamo soprattutto nel bagaglio esperienziale di riferimento».

Si può fare un esempio di questa notevole differenza culturale?

«Noi siamo stati segnati dal Concilio Vaticano II, che qui è lontanissimo. Il nostro bagaglio spirituale deve confrontarsi con il modo di pensare di gente che nella lingua parlata non ha nemmeno le parole per esprimere i termini religiosi basilari della fede. Le parole chiave nel nostro annuncio hanno una portata semantica completamente diversa rispetto al pensiero della gente. Un esempio per tutti: in albanese “amare” e “volere” hanno lo stesso suono verbale. Poi dopo che il comunismo ha sfruttato i termini di “comunione”, “solidarietà” e “volontariato” non si capisce più il valore della cooperazione e della condivisione per un miglioramento di tutti. Giustizia è solo perché siano rispettati i diritti senza doveri, nel senso che tutti prendano senza assicurare che qualcuno dia».

In che modo è penetrato il modello di vita occidentale?

«La cultura neoliberista del “minimo sforzo e massimo profitto” qui ha trovato le migliori disposizioni, perché appunto il comunismo in chiave ateistica ha svuotato le persone di idealità e di valori. Il senso della parola data, la “besa”, un punto fermo nella cultura tradizionale albanese, non è più rispettata come prima e si presta al gioco della “bugia bianca”, che è la maniera balcanica di dire la verità in modo che sia colta solo da chi la sa capire. Un proverbio famoso dice: “La bugia è il sale della vita”. Con tutto ciò si deve dire che il popolo albanese ha un forte sentire religioso e un vero senso del “timor di Dio”. Per cui, ad esempio, è rarissimo sentire un albanese bestemmiare e, se viene in Italia, prova un grave disagio per l’uso frequente della bestemmia. Poi questo popolo ha un tipo di intelligenza pratica. Ciò vuol dire che, se coglie bene il messaggio religioso, ci tiene poi ad attuarlo e metterlo in pratica».

Quale nuovo annuncio evangelico è possibile in tale contesto?

«L’esperienza che riporto da questi 13 anni mi fa dire che la prima attenzione che dobbiamo avere nell’evangelizzare è quella di non importare senza senso critico modelli che sembrano efficienti altrove. Ciò vale soprattutto per il campo della catechesi, dove noi missionari provenienti da paesi che disponevamo di molti testi e materiale già ben elaborato e siamo caduti nella tentazione di tradurre tutto in albanese e di proporlo senza troppi adattamenti alla gente. Dobbiamo riconoscere che ciò non ha ben funzionato, soprattutto perché non combaciava con il vissuto concreto di qui.

Devono sorgere modelli e formule pastorali che siano il frutto di una attenta analisi dei comportamenti albanesi all’interno delle famiglie, nei rapporti di vicinato, nei rapporti tra generazioni. Occorre conoscere come vivono la loro memoria storica, i valori che hanno tenuto con il cambiare dei dominatori di questa terra. Molti elementi evangelici qui erano vissuti già nei primordi del Cristianesimo, poi si sono impolverati con le vicende storiche. Riscoprendoli oggi, essi ci offrono la possibilità di un vero aggiornamento con tutto il cammino che la Chiesa ha fatto fino al Vaticano II».

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