Crisi regionali, crisi globali

Ultime in ordine di data, le crisi in Myanmar, nel Tigrè etiope, nella Sahel del Burkina Faso, del Niger e del Mali. In tempo di Covid come vengono visti questi punti di conflitto? Come capire che non sono fiction ma realtà?
Yangon, Myanmar, 6 febbraio 2021. Proteste per il divieto di accesso ai social media dopo il colpo di Stato. (AP Photo)

Quasi rinchiusi nelle nostre case dalla pandemia, osserviamo con un certo distacco le notizie sulle crisi estere che ci vengono dalla televisione, dalla radio, da Internet. Immerse nelle notizie sulla lotta al coronavirus, sulle vittorie del virus e su quelle momentanee delle nostre fragili forze umane, ci arrivano anche delle notizie lontane, lontanissime, sul colpo di Stato in Myanmar, sulle vicende terribili della “guerra” nel Tigrè che oppone forze governative ed irredentiste, dello stillicidio di attentati delle forze jihadiste nelle zone semi-desertiche dei Paesi del cuore dell’Africa occidentale. Le sentiamo distrattamente.

Capita che qualcosa faccia breccia nell’indifferenza: l’altro giorno ho avuto contatti con una giovane del Myanmar attraverso un collegamento zoom, che ancora funzionava, oggi non più. Ci diceva tutta la sua sofferenza per una situazione insostenibile, per la protesta continua della popolazione civile contro i militari, della resistenza passiva che si apprestavano a organizzare. Ieri ho invece sentito al telefonino una guida che mi aveva condotto a visitare alcuni monasteri ortodossi nelle caverne o nelle cime delle montagne del Tigrè, regione molto nota a noi italiani per l’occupazione da parte dei nostri soldati dell’epoca imperiale: «Qui abbiamo perso la sicurezza, gli scontri scoppiano in luoghi sempre nuovi, non si sa più quali siano le zone sicure. Persino dei monasteri sono stati violati, o perlomeno isolati». E stamani ho udito un amico prete del Burkina Faso, che vive in prossimità delle zone dove i jihadisti combattono e dove le promesse dei fanatici islamisti sta risvegliando sopite rivalità tribali. Tutti e tre questi interlocutori non erano disperati ma sofferenti, pur essendo in situazioni oggettivamente difficili.

Nell’epoca della pandemia e dell’infodemia, del Covid e delle troppe news, è facile perdere ogni punto di riferimento spazio-temporale: siamo a casa ed essa diventa l’unico luogo che ci sembra reale. Il resto è vicino e minaccioso, ma invisibile, come il virus, o lontano e inoffensivo, seppur visibile, come le notizie dalle zone di conflitto. E così ingigantiamo la difficile situazione vicina e sminuiamo la molto più complicata e pericolosa situazione lontana. Cos’è che può ridarci le giuste proporzioni spazio-temporali? Il contatto umano, la relazione diretta.

La Rete ha infinite possibilità in questo senso e va sfruttata. Basta chattare in qualche social e ci si può mettere in contatto con l’Etiopia, il Myanmar, il Mali, o anche coi profughi bloccati nel gelo in Bosnia, o agli abbandonati dello Yemen. I più giovani non hanno problemi a farlo, e spesso lo fanno, mentre gli adulti e gli anziani hanno un po’ più di difficoltà. Ma anche gli ultracinquantenni potrebbero farlo. È un modo per riprendere contatto con la realtà, quella vera e reale, quella della sofferenza. Un’operazione del genere, tra l’altro, sminuirebbe il terrore del nostro presente pandemico, e ci aiuterebbe a dare le giuste dimensioni ai disagi che tendiamo ad ingigantire qui da noi.

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