Crisi e speranze del mondo arabo
«Bisogna adoperarsi per sottrarre la cultura islamica al pensiero fondamentalista se si vuole la pace nel Medio Oriente» dice Giuseppe Scattolin, islamologo e profondo conoscitore dei Paesi arabi
La Libia e la Siria sono i due Paesi arabi in questo momento al centro dell’interesse internazionale: il primo per la guerra che vede impegnata l’Italia al fianco della Nato e l’altro per le proteste che da settimane insanguinano le strade della capitale senza che vi siano risposte da parte del Governo. Ma anche in Tunisia, Egitto e negli altri paesi del Maghreb non si respira certo un’aria serena. L’onda araba non ha ancora cessato i suoi effetti. Abbiamo chiesto a padre Giuseppe Scattolin, comboniano, islamologo e profondo conoscitore del mondo arabo un’analisi della crisi che sta attraversando questi paesi.
Padre Scattolin che spiegazione dare di questo fenomeno?
«Quest’anno sembra essere incominciato all’insegna di una crisi profonda che attraversa e scuote tutto il mondo arabo. Crisi che certamente segnerà un vasto cambiamento in esso. Ben pochi, a mia conoscenza, avevano percepito perfino la possibilità di tali cambiamenti. Tanto più che questi cambiamenti vanno in senso contrario alle molte crisi passate da esso di recente (si pensi all’Iran, Iraq, Afghanistan, Sudan), crisi che portavano tutte il timbro del fondamentalismo islamico che cercava in modi diversi di prendere il potere ed imporre la propria visione islamista alle società arabe. Ora invece si sentono i giovani in Tunisia prima, poi in Egitto, quindi in Yemen, Libia, Bahrein, ed altri proclamare e reclamare "libertà e democrazia". Le analisi si moltiplicano per trovare le cause di tali movimenti.
Stando in Egitto posso dire che certamente molti fattori erano conosciuti. La profonda crisi economica che pesava soprattutto sulle classi più povere. La corruzione dilagante nelle classi superiori e in tutti i settori della vita pubblica. La sensazione di trovarsi in un circolo chiuso, in cui ben poche speranze erano lasciate ai giovani in modo particolare. Infine, probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso, le ultime elezioni di dicembre in cui le opposizioni (Fratelli musulmani in testa) sono state letteralmente estromesse dal Parlamento. Tutto questo aveva costretto l’opposizione ad organizzarsi per creare un Parlamento di opposizione, alternativo al Parlamento ufficiale. Quando quindi gli avvenimenti della Tunisia hanno dimostrato che dimostrazioni di massa possono vincere anche la violenza della polizia di stato, il loro successo si è subito riflesso sulla società egiziana.
I giovani e la tecnica del social network Facebook, da loro ben maneggiata hanno fatto sì che dimostrazioni oceaniche si siano scatenate nella piazza Tahrir del Cairo, abbattendo le violenze della polizia di stato che ha cercato in tutti i modi di espellere i dimostranti. La gestione organizzata dai giovani è stata esemplare, reagendo con ragionevolezza, ma con fermezza a tali provocazioni. Infine, essi restarono in possesso di piazza Tahrir e imposero il cambiamento radicale dell’apparato amministrativo egiziano, incominciando dal presidente Mubarak, che ha dovuto dimettersi. I dettagli degli avvenimenti sono conosciuti. Da notare che in tale clima di cambiamento si è avuto in Egitto un fenomeno sconosciuto nel passato. Per la prima volta la comunità copta è scesa per strada e per parecchi giorni i copti hanno dimostrato in massa davanti alla sede della TV egiziana reclamando i loro diritti e il risarcimento per violenze fatte contro di loro e contro le chiese copte».
Si tratta solo di un cambiamento a livello politico o si tratta di qualcosa che va più a fondo?
«Certamente siamo di fronte ad un cambiamento che va oltre il livello politico. I giovani hanno dimostrato di avere ben assimilato molte idee delle democrazie moderne. Il loro motto "libertà e democrazia" riassume una visione nuova della società araba. Non sono certamente idee nuove: ricalcano il motto della rivoluzione francese, "libertà, uguaglianza, fraternità". Idee simili erano state propagandate nei movimenti nazionalisti degli anni ’20 e ’50 del secolo scorso, per combattere il colonialismo europeo e creare degli stati nazionali indipendenti. Questi poi si sono evoluti in stati dittatoriali che hanno fatto fallire di fatto gli ideali di tali movimenti, creando delle gerarchie guidate da un ristretto gruppo di persone che hanno avuto in mano per parecchi anni (circa 40 per Gheddafi, 30 per Mubarak, Saleh e altri) il destino di quei popoli. Erano in pratica dittature militari, a partito unico, in cui il potere diveniva esclusiva di alcune famiglie. La successione del figlio del presidente, come si sa, è sempre stata una questione cruciale in vari paesi arabi. Si può dire che si tratta di una rivoluzione contro il "colonialismo interno", come le prime rivoluzioni erano contro il colonialismo esterno».
Riusciranno tali movimenti democratici a imporre una stabile svolta alle societa’ del Medio Oriente?
«Occorre sottolineare che questi nuovi movimenti rivoluzionari devono fare i conti con un fattore importante della società araba, il fondamentalismo islamico, che la domina a vari gradi e con vari movimenti. È ben organizzato, e, anche se è stato sopreso dalla rivoluzione dei giovani, non intende lasciare il campo alle idee moderne di libertà e democrazia. Uno dei punti centrali è l’imposizione della legge islamica (la famosa sharî’a). Questo è un elemento con cui la rivoluzione dei giovani dovrà confrontarsi sul piano pratico delle elezioni e della gestione del potere, ma anche sul piano teorico delle idee. Il fondamentalismo islamico quindi condizionera’ molto il futuro prossimo delle società del Medio Oriente».
Quindi il vero problema è il crescere e l’espandersi del fondamentalismo religioso. Quali sono le cause di tale fenomeno? E come lo si può combattere?
«Certamente il fondamentalismo religioso costituisce un problema cruciale per tutte le società del Medio Oriente, e per tutti i musulmani a livello mondiale. È un problema che preoccupa un po’ tutti, ma poco, a mio avviso, è stato fatto per studiarne le vere cause, e trovarne il giusto rimedio. Esso ha una lunga storia che non può essere ignorata. Si può dire comunque che si è acuito nel confronto-scontro fra società islamiche tradizionali e la modernità venuta dall’Occidente. Da due secoli il mondo islamico vive in una profonda crisi causata da tale confronto. Modernità significa ricerca scientifica libera, razionale; centralità della persona umana nei suoi diritti fondamentali, soprattutto di libertà di coscienza, di scelta religiosa, di espressione, ecc. Tutto questo processo è maturato in Europa nell’epoca moderna, illuminista. Sappiamo che non fu facile per la Chiesa stessa accettare tale processo. Quindi non fa meraviglia che altre società umane trovino difficoltà in tale confronto.
Il Medio Oriente è passato da una fase più liberale, fino a metà del ‘900, ad una di nazionalismo di tipo socialista. In Egitto questo è coinciso col periodo di Nasser. Col fallimento di questo nazionalismo arabo si è aperta la fase del fondamentalismo religioso negli anni ’70, che intende risolvere tutti i problemi alla luce di una lettura molto rigida dei testi fondanti della religione. Il discorso è lungo, ma una caratteristica fondamentale e pericolosa di questo fondamentalismo è l’unione fra religione e politica, sorgente di molte tensioni, abusi e violenze. Inoltre le politiche occidentali, invece che aiutare a risolvere il problema, lo hanno acuito ed esarcerbato. E’ con tale apparato di idee e organizzazioni fondamentaliste che la rivoluzione dei giovani dovrà confrontarsi. Avrà la capacità di pensiero e di organizzazione per resistere alla sua pressione? Questa per me è la questione di fondo».