Crisi del petrolio e logiche dell’economia
Quando ci accorgiamo che, andando dal benzinaio, gli stessi soldi ci fruttano sempre meno litri per il serbatoio della nostra macchina, sospirando diamo la colpa alla situazione in Medio Oriente, sperando che prima o poi le cose tornino come prima. Il prezzo del carburante in effetti potrà ancora scendere, ma quello che non si dice sui giornali è che la massima possibile produzione complessiva di petrolio sarà raggiunta già nel nostro dopodomani e non in un futuro lontano a cui dovranno pensare i nostri pronipoti, forti delle scoperte che potranno nel frattempo realizzare. Mentre infatti i consumi di petrolio nel mondo continuano ad aumentare, a partire dalla metà del prossimo decennio, non ve ne sarà più abbastanza abbastanza per soddisfare le necessità di tutti. Buona parte degli esperti petroliferi infatti ormai concordano che attorno al 2015, cioè fra soli dieci anni, la produzione mondiale raggiungerà il massimo storico, per poi progressivamente ridursi, esaurendosi nei successivi venti, trenta anni. Si tratta di previsioni basate su dati concreti, pubblicate su riviste del settore, tutt’altro che inclini a visioni catastrofiche: si tratta di conti fatti sui giacimenti in via di sfruttamento, su quelli in via di prossimo utilizzo, su giacimenti già identificati ma non ancora trivellati e su quelli che prevedibilmente potranno essere individuati in un pianeta Terra, ormai ben saggiato dalle prospezioni petrolifere. Potranno verificarsi certo scoperte imprevedibili, ma molto difficilmente esse saranno di dimensioni tali da modificare sostanzialmente la situazione. Inoltre le novità non sono sempre positive: dopo lo scandalo energetico Enron, le comunicazioni delle grandi società energetiche sono diventate più realistiche, ed il presidente della Shell ha ultimamente ammesso che la sua azienda aveva sopravvalutato del 20 per cento la quantità di petrolio estraibile dai giacimenti di sua proprietà, ed ha sentito di conseguenza di dover dare le dimissioni dalla sua carica. Non sempre poi i conteggi sulle riserve petrolifere mondiali possono basarsi sul senso di responsabilità dei manager: molto spesso bisogna accontentarsi dei dati forniti dagli stessi paesi produttori, senza possibilità di verifica, e non è da stupirsi se alcuni di essi possano rivelarsi ottimisti, visto che da quei dati dipende l’ottenimento dei finanziamenti per lo sviluppo del loro settore estrattivo. Quando negli anni Settanta le crisi del Medio Oriente avevano fatto impennare il prezzo del petrolio ad un livello corrispondente a 100 dollari attuali al barile, mentre alcuni paesi (tra cui la Francia) optavano decisamente per il nucleare, riguardo al petrolio si era optato per lo sfruttamento, più costoso ma politicamente più sicuro, di giacimenti situati in parti del mondo meno travagliate. In trenta anni però questi giacimenti sono stati ampiamente sfruttati: i pozzi del Mare del Nord e degli Usa sono ormai agli sgoccioli e quelli della Russia prossimi ad un declino; così il picco di produzione previsto per il prossimo decennio sarà raggiungibile solo se sarà possibile utilizzare pacificamente i giacimenti del Caucaso e soprattutto del Medio Oriente, in particolare quelli dell’Arabia Saudita e dell’Iraq. Non basterà aspettare il 2015 per contenere i nostri consumi, perché nel frattempo grandi paesi, soprattutto asiatici ed africani, si saranno ulteriormente sviluppati e per continuare a farlo vorranno ottenere una sempre maggiore fetta dell’energia complessiva disponibile, riducendo il divario tra il loro basso consumo per persona rispetto a quello del mondo occidentale, attualmente da dieci a venti volte più alto. Essendosi raggiunto un limite fisico di produzione, l’aumento del prezzo potrà agire solo sui consumi. In effetti, quando negli anni Novanta in Russia si è iniziato a pagare energia elettrica e riscaldamento, il consumo si è dimezzato. Il petrolio disponibile andrà quindi a chi avrà risorse per acquistarlo. Ciò significherà che i paesi più deboli dovranno fermare le fabbriche per mancanza di energia, penalizzando lavoro e produzione. Ciò potrà essere considerato, soprattutto da chi ne soffrirà, un’ingiustizia, un sopruso, un atto di inimicizia, e forse di guerra. Come prepararci in tempo per un futuro problematico che la filosofia del mordi e fuggi oggi dilagante tende a ignorare, concentrandoci sull’immediato? Dovrebbero intanto pensarci gli stati, promuovendo con incentivi fiscali l’adozione di energie alternative che già oggi offrono soluzioni concrete, quali l’energia prodotta grazie al vento ed alle correnti marine. In Italia occorrerebbe anche valutare se non sia il caso di rimettere in funzione le centrali nucleari esistenti, tanti più che il loro non utilizzo non ne diminuisce né il costo né l’impatto ambientale (che purtroppo durerà per secoli). Soprattutto lo stato dovrebbe aiutarci a puntare sulla energia alternativa più conveniente di tutte, cioè quella che viene semplicemente risparmiata, riducendo a parità di prestazioni i consumi delle automobili, rendendo più efficiente e distribuita sul territorio la produzione di energia elettrica, riducendo il calore disperso nelle abitazioni, e così via. Ma senza aspettare lo stato, si può prendere da subito l’iniziativa anche a livello personale, familiare, di condominio: abituandoci a consumare di meno anche se oggi potremmo permetterci di consumare di più; scegliendo da subito le energie alternative disponibili, ad esempio quelle agevolate in Italia a livello regionale, come la produzione di energia elettrica tramite pannelli fotovoltaici posti sul tetto o sui muri della nostra casa. Poi, come già suggerito, utilizzando mezzi di trasporto ibridi o a metano, che ci richiedono visite meno frequenti al benzinaio, e resistendo alla moda di mezzi di trasporto di dimensioni sempre più ingombranti ed assetati di carburante, come i vari fuoristrada ed i pick up. Che sono forse adatti a viaggi nel deserto africano (dove oramai non si può più andare per timore dei terroristi) o alle praterie del Texas, dove possono servire per riportare alla stalla i vitelli sperduti, ma non sono ugualmente necessari per accompagnare i bambini all’asilo o per andare al mercato a comperare la frutta. Lo stato dovrebbe fare campagne di Pubblicità Progresso volte a incoraggiare l’esibizione, non della macchina più mastodontica e con pneumatici da autocarro, ma di quella più intelligente, che consuma di meno e non inquina. Ma davvero il prezzo del petrolio rimarrà alto, o fra un po’ tutto tornerà come prima? Personalmente penso che sarebbe un bene per tutti che rimanesse alto: se dai quarantuno dollari per barile attuali, il prezzo tornasse a quindici dollari, l’economia mondiale riceverebbe certo un’iniezione di adrenalina, ma ciò ci distoglierebbe dall’affrontare in tempo la sfida del prossimo decennio. Se invece i prezzi dell’energia si mantenessero alti, o addirittura salissero ancora, ne nascerebbe un disastro economico? Non è detto, sostiene l’economista inglese dell’energia Andrew McKillop, nel suo libro La crisi energetica finale (Pluto Press, Londra, 2004). Egli ha confrontato l’andamento complessivo dell’economia degli ultimi decenni con il prezzo dell’energia nello stesso periodo, rilevando che quando il prezzo dell’energia si è improvvisamente impennato, esso, pur penalizzando nell’immediato le economie dei paesi industrializzati, non ha comportato, a livello globale, una frenata nello sviluppo economico. Come mai? Perché l’aumento del prezzo del petrolio ha comportato un grande spostamento di risorse dal mondo del nord al mondo del sud, come dagli Usa verso l’Europa con il Piano Marshall dopo la Seconda guerra mondiale, solo che in questo caso gli aiuti non sono stati come per l’Europa a fondo perduto, e sul mondo del sud è rimasto il peso dei debiti. Negli anni Settanta gli Usa infatti per pagare il petrolio il cui prezzo era aumentato in pochi mesi di dieci volte, avevano stampato una maggiore quantità di dollari, aumentando così la liquidità monetaria mondiale con i cosiddetti petrodollari. Non esistendo a quel tempo altre monete forti, e non essendo più il dollaro convertibile in oro, il fatto di emettere più dollari non cambiava sostanzialmente il valore di quelli in circolazione: una operazione per gli Usa quasi indolore, che innescava sviluppo economico in tanti paesi del Terzo mondo, ma che finiva anche per indurli a coprirsi di debiti. I petrodollari infatti, versati in buona parte agli sceicchi arabi, finivano poi per essere prestati ai grandi paesi dell’America Latina, dell’Africa del Nord e dell’Asia, che in quel momento avevano una grande potenzialità di crescita economica e di consumo: questi paesi, spendendoli, purtroppo non sempre oculatamente, creavano una domanda di macchinari e prodotti che veniva soddisfatta dai paesi industrializzati, facendone così ripartire l’economia. Quello degli anni Settanta è stato un evento economico mondiale che confermerebbe le teorie dell’economista Keynes: lo spostamento di ingenti risorse dai paesi più ricchi – spostamento non volontario, ma indotto dalla tassa petrolifera – aveva indotto sviluppo economico ed una migliore la qualità della vita in molte nazioni in via di sviluppo, con risvolti positivi anche per chi la tassa la aveva pagata. In nome di questi ultimi risvolti, adesso occorrerebbe che i paesi industrializzati si facessero carico anche dei risvolti negativi di quell’evento, cancellando almeno quella parte di debiti dei paesi in via di sviluppo nati da spese poco oculate perché indotte da loro condizionamenti politici o vendita di armi di loro produzione. Il sistema economico e l’influenza politica dei grandi paesi consumatori hanno in questi decenni condizionato i governi dei paesi produttori a stabilire il prezzo delle materie prime in base al loro costo di estrazione, trascurando il fatto che si stava consumando in pochi decenni un tesoro naturale non rinnovabile se non in milioni di anni, un tesoro a cui avrebbero avuto diritto di godere anche le future generazioni. Su tale argomento dieci anni fa il Bureau internazionale di economia e lavoro di Umanità Nuova, ottenuto lo status consultivo al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, aveva voluto dare un suo contributo presentando all’Onu il progetto di un Consorzio mondiale delle materie prime. Tale progetto, che ancora oggi sarebbe di grande attualità, prevedeva di creare un consorzio che invece di abbandonare agli interessi immediati di imprese e governi il prezzo del petrolio, permettesse di mantenerlo con l’accordo di paesi produttori e consumatori, ad un livello tale da evitarne lo spreco e rendere conveniente lo sviluppo di energie alternative: al consorzio i paesi produttori, se pressati dalla necessità di risorse immediate, avrebbero potuto vendere i diritti di futura estrazione delle loro produzioni al momento non richieste dal mercato. Le Nazioni Unite, che hanno come scopo la pace e lo sviluppo mondiale, non hanno purtroppo però saputo avere alcuna voce autorevole in questo ambito, anche se era evidente che bassi prezzi avrebbero significato un incoraggiamento allo spreco di questi beni, distogliendo l’attenzione dallo sviluppo delle energie originate in vari modi dall’energia del Sole, il quale continuerà a donarci gratis i suoi raggi per altri miliardi di anni.