Crisi cinese e Forum sino-africano

Il prossimo Forum on China-Africa Cooperation (Focac) si svolgerà a Pechino dal 4 al 6 settembre. Il convegno dovrebbe fare il punto sui rapporti fra la Cina (e la sua crisi economica), gli americani che cercano di fare i conti con la concorrenza economica cinese, e i Paesi dell’Africa ormai colonizzati dai cinesi, ma anche coscienti dei rischi che corrono
Ansa EPA/WU HAO

La crisi della Cina, caratteristica del post-Covid, è paradossalmente una crisi che arriva da uno sviluppo esagerato e da una sovra-produzione in molti settori. Pur con un mercato interno di un miliardo e 400 milioni di abitanti, il colosso asiatico non riesce ad assorbire tutto quanto produce, soprattutto in alcuni settori. E non ci riesce nemmeno il mercato mondiale. Basta considerare il fatto che il Paese asiatico ogni anno produce il doppio dei pannelli solari rispetto al fabbisogno reale a livello mondiale. Il problema non è recente, parte, almeno in linea di principio, dai piani quinquennali degli anni ’80 del secolo scorso, quando Deng Xiaoping aprì il mondo cinese all’economia di mercato. È quindi una questione politica che ha prodotto una pianificazione economica concentrata sulla produzione esagerata di alcuni prodotti, considerati e designati come prioritari – via via il carbone, l’alluminio, il cemento, la robotica le batterie per auto elettriche – senza tener conto della capacità di assorbimento sia locale che del mercato internazionale.

Se in Occidente è l’economia ad influire sulla politica, in Cina è la politica (il partito) a determinare le scelte economiche, sebbene si tratti ormai di un’economia di mercato, tuttavia attentamente pianificata dalla dirigenza politica. La strategia politico-economica di Xi Jinping ha sempre più messo l’accento sul rendere il gigante asiatico economicamente autosufficiente. «Riusciamo a produrre tutto, o quasi – ha continuato a ripetermi un amico cinese nei giorni in cui mi trovavo a Pechino –, quando riusciremo a produrre anche i chip saremo assolutamente autosufficienti».

Se questo orientamento resta vero, rappresenta però anche il punto debole del sistema. Nella corsa a produrre tutto quanto di cui abbisogna per essere autosufficiente, il sistema cinese spinge di fatto, alla sovra-produzione. I burocrati nelle varie provincie, infatti, esercitano pressioni perché cresca la produzione di certi beni, con il risultato di una sovraproduzione di prodotti che sono immessi sul mercato mondiale a prezzi stracciati rispetto a quelli della concorrenza. Ed è proprio questo che provoca le reazioni sia da parte degli Stati Uniti che dell’Unione Europea, che si vedono costretti a imporre tassazioni alte sui beni provenienti dal dragone, per salvaguardare la propria produzione.

Molti dei prodotti invenduti vengono allora dirottati su altri mercati, come quello dei Paesi africani, dove la Cina ha ormai una presenza radicata. Davanti alla finestra della camera dove ho abitato per una settimana a Nairobi c’era una costruzione con la scritta China House, e persino i caselli dell’autostrada che porta all’aeroporto Jomo Kenyatta hanno forma di costruzioni cinesi. Nairobi appare in pieno boom edilizio, ma sembra di essere nel cuore della Cina. I palazzi costruiti dai cinesi sono identici a quelli delle nuove metropoli del Paese asiatico, che spesso restano invenduti. Tuttavia, i prodotti che vengono dirottati sui mercati africani sono spesso quelli di bassa qualità e l’Africa diventa ancora una volta vittima della colonizzazione. Oltre ai debiti acquisiti negli accordi per sviluppi edilizi e delle reti di comunicazione stradale, e non solo, l’Africa deve fare i conti con il dumping cinese, che propina in quel continente il peggio della sua sovra-produzione.

Ecco allora l’attenzione che merita il prossimo summit sino-africano di Pechino. Si tratta di un nuovo capitolo delle relazioni fra Cina e Africa, dopo il summit del 2006, il vertice di Johannesburg del 2015 e il forum della Focac sempre a Pechino del 2018. È anche il più grande evento diplomatico che la Cina si appresta ad ospitare negli ultimi anni, con la più alta partecipazione di leader stranieri e la presenza come “ospite speciale” del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.

I Paesi africani, pur essendo ormai da tempo oggetto degli interessi economici – e politici – del dragone cinese, si rendono conto dei rischi che corrono. Secondo un esperto africano del settore, le nazioni africane dovrebbero essere in grado di negoziare e garantire che non si verifichi il dumping di questi prodotti nel continente. C’è, infatti, la coscienza della necessità di garantire una produzione locale nei vari Paesi del continente africano onde creare occupazione per i giovani e garantire la produzione di alcuni beni essenziali. D’altra parte, nella prospettiva cinese, l’evento di Pechino 2024 dovrebbe aprire nuove prospettive per le relazioni Cina-Africa e, secondo l’ambasciatore cinese in Sudafrica, Wu Peng, ci sarà un’attenzione speciale a sostenerne lo sviluppo green. L’Africa, una delle regioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici, deve affrontare l’urgente necessità di passare a un’economia verde e a basse emissioni di carbonio. Inoltre la dipendenza del continente dall’agricoltura, altamente suscettibile alle fluttuazioni climatiche, aumenta la sua vulnerabilità.

Il Forum rappresenta, quindi, un momento che suscita interesse anche per il futuro geopolitico-economico degli equilibri mondiali.

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