Criminalità e politici: le motivazione della sentenza di Cassazione
Quarantunesimo anniversario dell’omicidio del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso a bordo della sua Autobianchi A112 insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro ed all’agente di scorta Domenico Russo.
Le celebrazioni per ricordare l’uomo che – consapevolmente e coraggiosamente – scelse di andare a Palermo per combattere la mafia si sono svolte nel capoluogo siciliano. Dalla Chiesa arrivò a Palermo il 30 aprile 1982, lo stesso giorno dell’uccisione di Pio la Torre, che era stato tra i più convinti fautori della sua nomina come Prefetto di Palermo. Lo convinse anche Virginio Rognoni, che gli promise speciali per esercitare il suo ruolo e dargli la possibilità di combattere la criminalità organizzata.
Nei quattro mesi di permanenza a Palermo Dalla Chiesa lamentò più volte il sostegno limitato del governo e il mancato rispetto degli impegni assunti. A luglio sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro, molto più giovane di lui. Meno di due mesi dopo entrambi furono uccisi (3 settembre 1982). Il generale cercò di coprire con il suo corpo la giovane moglie, nel disperato tentativo di salvarla. Morirono entrambi e con loro anche l’agente Domenico Russo.
Nel giorno dell’anniversario di Carlo Alberto Dalla Chiesa risuonano le parole del messaggio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il capo dello stato ha detto che la morte del Prefetto di Palermo «richiama l’intero Paese a uno sforzo corale nell’impegno di tutti nella lotta alla mafia. Tutta la società italiana deve sentirsi coinvolta: le istituzioni, le agenzie educative, il mondo delle associazioni».
Tutti.
Queste parole riecheggiano in modo particolare in Sicilia. Nell’isola ancora alle prese con i vari filoni del processo per l’omicidio di Borsellino, nell’isola che sta ancora vivendo i procedimenti del processo Montante, che chiama in causa e coinvolge il mondo politico, è arrivata, qualche giorno fa, una notizia importante, ma passata comunque in secondo piano, complice il clima estivo.
Sono state depositate le motivazioni della sentenza della Corte di cassazione che ha assolto, in via definitiva, l’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il deposito delle motivazioni della sentenza (che era stata emessa a marzo) porta con sé alcuni spunti di riflessione. Tredici anni di processo, annullamenti, rinvii e ricorsi alla Corte di Cassazione e per ultimo il rigetto dell’ultimo appello della procura e l’ultima definitiva sentenza.
Che contiene alcuni spunti interessanti. Vediamo quali.
La Suprema Corte ha affermato che l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa non aveva prove sufficienti per permettere una sentenza di condanna. Essa può reggere nel processo e avere un esito positivo con un’eventuale condanna solo se si dimostra «non la mera vicinanza al detto gruppo o ad i suoi esponenti, anche di spicco e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa, ma la prova del patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento. Diventa quindi di rilievo ai fini processuali «la concreta esecuzione delle prestazioni promesse, spesso rilevanti solo ai fini di prova».
In una parola, gli ermellini hanno ribadito che in uno Stato di diritto una sentenza di condanna può essere emessa solo in presenza di prove provate, ineccepibili e certe della colpevolezza. Nel caso di un processo per concorso esterno in associazione mafiosa (il cosiddetto 416 ter), bisogna acquisire la certezza non già della frequentazione tra un esponente politico e gli ambienti criminali, ma la «certezza del patto», degli accordi raggiunti al fine di trarne un’utilità diretta, «la concreta esecuzione delle prestazioni promesse, spesso rilevanti solo ai fini di prova».
Ciò che potrebbe sembrare normale e scontato apre in realtà squarci importanti. La Corte di Cassazione spiega che ci deve essere un rapporto di collegamento diretto, diremmo di causa-effetto, tra gli interessi della criminalità e le effettive scelte compiute dall’esponente politico. Nel caso dell’azione politico amministrativa difficilissimo da provare, perché varie e molteplici possono essere le cause di una scelta politica.
La prova, quindi, diventa difficile da provare.
Eppure in Sicilia e in altre regioni del Meridione tanti comuni sono stati sciolti per mafia. E in questi casi è bastato poco, veramente poco – qualche prassi amministrativa errata o poco più – perché sindaci, giunta e consigli comunali venissero mandati a casa. Spesso le vicende processuali successive hanno dato ragione alle amministrazioni sciolte per mafia e riabilitando chi era stato ingiustamente accusato.
Quali saranno le conseguenze di questa sentenza? Se questo è il dettato della Corte di Cassazione, appare chiaro che laddove magistratura e politica non riescono a fare argine alla criminalità, maggiore e più delicato appare il compito dei partiti, il cosiddetto “corpo intermedio” tra cittadini e istituzioni.
È giusto che nel processo si debba formare la prova certa per potere emettere una condanna. Ma in questo contesto è necessario che i partiti alzino la soglia di attenzione attorno a certe contiguità che, pur non configurandosi sempre come reati, sono però indice di una prassi politica non certo auspicabile.
I partiti devono essere più severi e chiedere comportamenti ineccepibili ai propri componenti.
La “Questione morale” di Berlinguer era un problema reale quarant’anni fa. Oggi lo è ancor di più.