Crimea, poi la Transnistria, quindi l’Abcasia…

Scenari inquietanti: si teme che la vicenda ucraina spinga le autorità moscovite a non arrestarsi nell’annessione di altri territori alla “frontiera dell’impero”
Fiume Dniestr

Che il presidente Vladimir Putin cerchi da una parte di mostrare i muscoli in Crimea, col dispiegamento poco alla volta delle forze armate russe e la nazionalizzazione di ogni spillo presente sul territorio della penisola del Mar Nero, e dall’altra di rassicurare le cancellerie e l’opinione pubblica occidentale, è un dato di fatto. Ma non tutti restano tranquilli di fronte a tali rassicuranti parole.

Si stanno risvegliando, infatti, alcuni piccoli staterelli, o presunti tali, ai margini del territorio della Federazione russa, residui della politica sovietica di colonizzazione strisciante che negli anni Quaranta-Ottanta ha portato a trapiantare centinaia di alcuni milioni di persone nei territori più lontani da Mosca. Con il chiaro scopo di introdurre dei cunei estranei alle etnie locali in certi Paesi, e così poter meglio controllare territori remoti.

È stata la politica attuata in particolare in alcuni Stati centroasiatici, come Kazakistan, Kirghizistan, Tagichistan e Uzbekistan, che però dopo la caduta del muro hanno progressivamente visto partire vaste schiere di popolazioni di origine russa. Il legame con questi Stati è ora assicurata dal cosiddetto Gruppo di Shanghai, a cui partecipano anche la Cina e altri Stati dell’Asia centrale: le finalità del Gruppo sono militari, economiche e culturali.

Anche nel travagliatissimo Caucaso, un vero coacervo di un centinaio di etnie diverse, la politica di Putin ha portato a cementare la corona di ferro filo-russa a cavallo tra la Ciscaucasia e la Transcaucasia. Non hanno altro senso le “conquiste” progressive di due regioni della Georgia, l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, che di fatto sono ora sotto il controllo di Mosca. Senza dimenticare il Nagorno Karabakh, enclave armena nel territorio dell’Azerbaijan, tra i più fidati alleati di Mosca con la dinastia al potere dei “vetero-societici” Aliyev: da qualche settimana si stanno risvegliando le mire azere sul territorio ora in mano a milizie filo-Yerevan.

E veniamo all’Europa, e ad un piccolo territorio chiamato Transnistria, una sottile striscia inserita tra la Repubblica di Moldavia, di cui ancora formalmente fa parte, e l’Ucraina. Un territorio ora di fatto legato a Mosca. Un territorio dove ancora esiste un potente Partito Comunista che reclama da alcuni anni l’annessione a Mosca. Martedì 18 marzo, Mikhail Burla, presidente del Soviet supremo, il Parlamento della regione separatista di Transnistria, ha chiesto al presidente della Duma russa, Sergueï Narychkin, di poter iniziare le manovre per riagganciare il proprio territorio alla Russia.

È dal 1992 che il territorio della Transnistria, sostanzialmente composto da agricoltori pacifici, ma nel quale prosperano anche mafie d’ogni genere, si è dichiarato indipendente, riconosciuto solamente da Mosca e, guarda caso, da Abcasia e Ossezia del Nord. Secondo il quotidiano russo Vedomosti, Narychkin ha ricordato a Burla che il referendum tenutosi nel 2006, non riconosciuto dall’Ue né dalla comunità internazionale, il 97 per cento della popolazione (quasi interamente russa di origine) ha votato per il ricongiungimento con la Federazione russa.

Tutto questo è certamente ben noto alle cancellerie occidentali, in particolare a Washington. Viene da chiedersi perché con una certa leggerezza si sia cercato di “accompagnare” economicamente e politicamente la rivolta della Majdan entrando, per usare una metafora calcistica, “in tackle scivolato” sulle caviglie del gigante russo, proprio nei giardini, o nelle aiuole, ai confini del territorio della Federazione russa. Mutatis mutandis, forse pochi si pongono una domanda per certi versi inquietante: cosa avrebbero fatto gli Stati Uniti se la Russia avesse cercato di influenzare pesantemente, per ipotesi, il governo messicano, alla frontiera dell’impero statunitense? Il caso di Cuba dimostra quanto duro sarebbe il confronto. Tutto dice che servirebbe una presenza europea più forte, capace di equilibrare il confronto tra le due grandi potenze mondiali (in attesa di Cina e India).

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