Crescere nell’incontro con tutti
Intervista a tutto campo con mons. Joao Braz De Aviz, nuovo prefetto della Congregazione degli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica
Come ha ricevuto la notizia della nomina?
«Il 14 dicembre, nel periodo in cui a Brasilia stavamo pianificando il nuovo anno pastorale, il cardinale Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, mi ha telefonato. Ho sospettato subito che ci fosse qualcosa di speciale. All’annuncio della nomina ho replicato: “Sta parlando della mia nomina a prefetto, non sarà forse a segretario?”. Ma egli ha confermato la nomina, per cui ho aggiunto: “Lei sa che non sono religioso”. Ha risposto che questo aspetto non era importante.
Allora ho ricordato che avevo cambiato quattro volte la sede episcopale e questa sarebbe stata la quinta; ogni volta ho detto sì perché credo alla volontà di Dio, soprattutto quando viene direttamente dal Santo Padre. Ho quindi offerto la mia disponibilità, nonostante i miei limiti, perché ho un grande amore per la Chiesa. Il cardinale ha poi fatto un commento che mi ha dato molta gioia: “La scelta viene dal desiderio del Santo Padre che ci sia sempre un brasiliano ad occupare una delle cariche del Vaticano, per l’importanza che ha la Chiesa del Brasile”».
Come vive questa nuova responsabilità?
«È un nuovo servizio che la Chiesa mi chiede. Ho imparato, soprattutto attraverso la vita di unità nel Movimento dei focolari, che devo essere al servizio di Dio e della Chiesa. Posso fare le mie domande, come Maria all’angelo, ma non posso opporre resistenza né, d’altro canto, pensare che ciò significhi una promozione. È un nuovo servizio che conosco poco, ma sono disponibile».
È stato duro lasciare Brasilia?
«Stavo vivendo un bel momento nel rapporto con fedeli, vescovi ausiliari e sacerdoti. Stavamo preparando una nuova Assemblea pastorale, anche l’aspetto economico della diocesi era ben curato, ma era necessario lasciare una cosa di Dio per fare la sua volontà: il cuore soffre un po’ perché ho lasciato una realtà amabile, bella. Nella messa di congedo, alla presenza di 4 mila persone, ho sentito che c’era molta riconoscenza».
Con quale atteggiamento assume il nuovo incarico?
«Qui lavora un gruppo di quaranta persone, specialisti in diritto canonico, lingue, costituzioni delle congregazioni religiose: conoscono bene i problemi della Chiesa. Ho imparato, attraverso la spiritualità dell’unità, che ogni famiglia religiosa è una parola di Dio diffusa nella storia. È come se la storia della Chiesa fosse impregnata di frasi del vangelo vissute.
Nonostante la vita religiosa nella Chiesa abbia problemi, questa visione è molto positiva; non si tratta di calcoli umani, il fondatore e la fondatrice non erano visionari, ma santi che hanno creato una scuola di vita in nome di Dio con l’urgenza che avevano nel cuore. E molte volte da una spiritualità è derivata anche una scuola di teologia.
Ho un rispetto molto grande. Riceviamo corrispondenze dei monasteri, degli ordini, delle congregazioni e ogni volta penso: dietro a questo c’è una persona che vive in una comunità, magari con un carisma di quindici secoli, e questo rende sacro il rapporto».
Quali sfide per la vita religiosa oggi?
«Tutta la Chiesa sta percorrendo un cammino di perfezionamento alla sequela di Gesù. Una volta si parlava degli stati di perfezione. Penso che dobbiamo ridurre il valore che si voleva dare con questa definizione, cioè seguire Gesù nei consigli evangelici; si correva infatti il rischio di vedere coloro che non avevano la vocazione alla consacrazione, per esempio gli sposati, come di seconda classe.
Ciò che crea un cammino di santità, invece, è il fatto di cercare la volontà di Dio che si manifesta ad ogni persona. Questa scoperta mi ha portato ad avere un grande rispetto per tutte le vocazioni: molte volte una mamma, un papà, sono più santi di noi consacrati. Dobbiamo purificare la visione delle cose, creare una maggiore coscienza della volontà di Dio all’interno di tutte le vocazioni e anche saper camminare insieme, seguendo Gesù».
Un concetto impegnativo…
«La sequela di Gesù non è seguire una regola, una tradizione, ma andare dietro qualcuno che ci chiama perché ci ama, perché si appassiona di noi e noi gli rispondiamo con amore. Questo dà una dimensione di leggerezza e di gioia alla nostra consacrazione. Infine bisogna scoprire – e qui sta il punto più critico – che siamo chiamati a vivere in una famiglia religiosa e a sentirci fratelli.
Questo punto è difficile e serio, perché non possiamo più andare a Dio soli, isolati dagli altri. L’amore che Dio manifesta per noi deve manifestarsi nell’amore per gli altri. Chi è l’altro per me? Un impedimento, una difficoltà, qualcuno che uso per i miei interessi o qualcuno che mi dà l’occasione di trovare Dio, se lo amo? Tutti parlano di comunione, le idee e la coscienza sono chiare; è il cammino che non è chiaro. Dobbiamo tornare al mistero dell’incarnazione, al mistero pasquale; dobbiamo scoprire perchè Dio, per incontrare l’uomo, si è fatto tanto piccolo. Ricuperare ciò che diceva Paolo. “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2, 5ss.).
D’altra parte, vedo che ci sono movimenti in questa direzione. Per esempio, oggi sono stati qui quindici brasiliani, di ordini e congregazioni diverse, che cercano di fare un cammino insieme in questo senso. Nel Movimento dei focolari i religiosi tengono vivo questo amore per le altre congregazioni, che fa bene al carisma di tutti. Chiara Lubich usava l’immagine del giardino con vari tipi di fiori, nell’armonia dei colori.
Anche qui nella Congregazione c’è un buon rapporto, con momenti di preghiera comune, ma sento che dobbiamo creare fra noi uno spirito di famiglia, senza paura, senza esigere, nella semplicità, ma anche nella verità».
Quale rapporto fra carismi antichi, come gesuiti, francescani, salesiani e nuovi, come Focolari, S.Egidio, Rinnovamento nello Spirito?
«Dio non crea nuovi carismi per sopprimere gli altri. I carismi antichi hanno una storia, una perseveranza, che i nuovi devono ancora confermare. I tempi cambiano e Dio continua a parlare; la Chiesa, però, non ha mai invitato a sopprimere un carisma, bensì ad adattarsi alla nuove esigenze che sorgono, senza perdere l’originalità che ognuno ha. In questo senso, nella misura in cui gli ordini e le congregazioni antiche cercano la semplicità e la vita evangelica più intensa e non le strutture, i beni e le opere, perché non dovrebbero avere oggi la fecondità di molti movimenti ecclesiali recenti, che alle volte si trovano anch’essi con difficoltà di vocazioni?
Vedo le cose molto armonizzate, non in contraddizione; ci deve essere aiuto reciproco. La Chiesa è il luogo dove tutto questo può avvenire: dobbiamo estrarre dalla cassaforte antichi e nuovi carismi, per mettere questi tesori a disposizione di tutta la Chiesa».
I religiosi alle volte si lamentano di essere usati solo per l’attività pastorale…
«La Chiesa attualmente sta riflettendo molto su questo problema. A Brasilia ho visto un monastero benedettino molto impegnato nella pastorale e ho percepito che non era quello che dovevano fare. Ho chiesto loro di lasciare la pastorale e tornare al loro carisma; il monastero ora è rifiorito.
Le clarisse stavano andando via perché avevano perso la casa. Me ne sono reso conto e mi sono detto: “Sono parte della Chiesa!”. Mi sono interessato, ho dato loro la mia casa dove sono rimaste per due anni, a poco a poco abbiamo costruito un monastero nuovo. La comunità sta crescendo con nuove vocazioni. Non basta dare per scontata questa attenzione, è una coscienza che deve essere costruita nella Chiesa, se ne deve parlare, in modo che ognuno, lavorando nel proprio campo, componga la Chiesa come un tutto».
Com’era la situazione a Brasilia?
«Nella diocesi esistono novanta congregazioni (di cui sessanta femminili) e ognuna ha due o tre opere, perciò sono una presenza diffusa. Non sono purtroppo riuscito a stabilire il rapporto personale che avrei voluto per poter procedere più uniti. Ma avevo il vicario episcopale che seguiva più da vicino i religiosi. Comunque il mio rapporto con i religiosi è stato positivo, anche nelle precedenti diocesi».
La vita religiosa dovrebbe avere anche una dimensione ecumenica e interreligiosa…
«Sono appena arrivato e non ho visto questo aspetto nella Congregazione. Nella Santa Sede ci sono istituzioni che si dedicano a questi problemi: il Consiglio per il dialogo interreligioso e il Consiglio per l’unità dei cristiani. Oggi, per la globalizzazione, la convivenza delle grandi tradizioni religiose è una realtà, per cui quando cerchiamo la verità non ci dobbiamo chiuderci.
Alcuni obiettano: “Allora tu metti Gesù allo stesso livello degli altri fondatori di religioni?”. No, abbiamo la fede che colui che Dio ha mandato per salvare l’umanità è Gesù Cristo, e non c’è altro Dio al di fuori di quello della rivelazione. Ma questo non deve impedirci di amare e rispettare tutto quello che in una persona di un’altra religione – soprattutto delle grandi religioni – c’è come ricerca della verità, e che non va contro il vangelo.
Gran parte di ciò che è umano possiamo farlo insieme. E anche molte cose della fede: quale religione pensa che Dio sia cattivo? Quale religione pensa che un uomo, per essere religioso, debba fare male agli altri? Sono principi universali che possiamo vivere insieme. Nella realtà, molte volte la cultura non totalmente evangelizzata e non totalmente aperta alla verità, ha finito per chiudere alcuni mondi su se stessi. Ma noi possiamo e vogliamo crescere nell’incontro con tutti».