Creare valore, senza rinunciare ai valori
Non siamo solo la sommatoria del nostro fare, seppur qualificato; la riduzione della significazione della nostra vita non può essere solo declinata in termini di utile, di convenienza, di profitto, di bilanci, programmazioni triennali, previsioni futuristiche su un tempo che ancora non c’è e che non possiamo possedere perché complesso, caduco e caotico.
Non siamo solo la sommatoria del nostro sapere, del nostro grado di enciclopedica conoscenza tramite un click in wikipedia, tuttologi senza qualificazione in dibattiti in cui conta quanto alzi la voce e non quanto sei pronto a ascoltare l’alterità dell’altro.
Non possiamo limitare il mistero del cuore dell’uomo e della donna al calcolo differenziale tra quanto “crede di conoscere” e “quanto produce”, perché corriamo il rischio di lasciare indietro qualcuno, qualcosa, la vita, la sua bellezza, un orientamento, un senso profondo ai nostri giorni.
Sono in molti a dirlo, dal sociologo Bauman a Papa Francesco, stiamo correndo senza meta, come un cane che si morde la coda, producendo più scarti che beni, eppure non riusciamo a fermarci, non riusciamo ad includere nel nostro quotidiano tempo dello stare senza per forza dover fare, a ciclo continuo, h24, come delle macchine senza la possibilità di premere off.
Tutto questo ci lascia un senso di vuoto, una disarmonia interiore, uno stato di malsana inquietudine che ci precipita nelle nostre solitudini esistenziali, con tanti dubbi, false certezze, sorrisi da selfie, e un messaggio vocale per chiedere aiuto, che purtroppo un attimo dopo cestiniamo.
La tanto studiata piramide dei bisogni di Maslow individua 4 tipologie dei bisogni umani, sicurezza, appartenenza, stima e autorealizzazione, ponendo in apice tra i bisogni di autorealizzazione temi di moralità, spiritualità, profondità, orientamenti transpersonali. Se provassimo a spostare il nostro punto di vista della piramide, ossia non ponendoci frontalmente, ma osservandola dall’alto, ci accorgeremo che questi sono bisogni posti al centro, come qualcosa di imprescindibile, di fondante, di caratterizzante ogni essere umano.
Se al cuore dei nostri bisogni poniamo quanto ci permette di significare la nostra vita a partire, non da ciò da cui siamo mossi, ma da ciò verso cui tendiamo, allora potremmo cambiare radicalmente i nostri paradigmi, al fine di utilizzare le nostre e altrui risorse e le nostre e altrui potenzialità, non solo per qualcosa, qualcuno che forse ne beneficerà “oggi”, ma saremo in grado di costruire ponti verso il domani, ricchi di speranza e di profezia.
Ed è proprio per questo motivo che si sta verificando un fenomeno particolare negli ultimi anni, quello di un ritorno alla richiesta di un accompagnamento spirituale da parte di quelle persone, spesso con ruoli di grande responsabilità nelle aziende, che travolti da questa spirale del fare, hanno percepito che tutto potrebbe farsi con una centratura nuova.
Infatti l’ultimo Rapporto Giovani 2022 dell’Istituto Toniolo, mostra quanto le giovani generazioni abbiano la condivisione di valori, come principio di ricerca di un luogo e un tempo in cui lavorare; ciò a mio avviso conferma, quanto non possiamo esimerci dal rispondere a questa ricerca riportando al centro della nostra formazione al lavoro, la costruzione di una rete di valori affinché si possa dare una nuova direzione alla logica del fare.
Nella scala dei saperi, possiamo individuare quattro livelli, un sapere di base, ossia la possibilità di accedere e di avere delle conoscenze da un punto di vista intellettuale, culturale, come anche l’insieme dei saperi molto familiari, quelli che si tramando di madre e padre in figlio; poi abbiamo il saper fare, ossia l’insieme di tutte le competenze che abbiamo nel campo degli agiti, saper cucinare, ballare, cantare, recitare, dipingere, costruire, calcolare; un sapere, questo molto o forse troppo spesso spettacolarizzato, in quella sommatoria di programmi televisivi in cui i talenti valgono meno dei “talent show”, in cui il saper fare viene giudicato da altri che hanno “saputo fare” un po’ prima, e che posti dall’alto delle loro scrivanie costantemente invitano a fare sempre e a fare sempre di più.
Se poniamo attenzione al nostro quotidiano, ci possiamo accorgere che molto del nostro fare potrebbe essere non fatto, che spesso confondiamo l’indispensabile con il superfluo, l’urgente con l’opinabile, ma che presi dal fare non sembra essere altrimenti. A questi due livelli, più o meno ci siamo abituati, perché sia esplicitamente che implicitamente veniamo educati dalle nei contesti sociali o familiari, con quelle che Berne, fondatore dell’AnalisiTransazionale, declina come spinte, ossia: sbrigati, sforzati, sii forte, compiaci e sii perfetto.
Un modello educativo funzionale alla crescita dei singoli e allo sviluppo delle capacità umane non può però essere manchevole di altri due livelli del sapere, che rafforzano l’idea della centralità di quei bisogni indispensabili di cui parlavamo prima, e sono il saper essere e il saper divenire.
Due saperi imprescindibili l’uno dall’altro, in quanto mentre impariamo ad essere diveniamo, e mentre diveniamo impariamo ad essere, sembra un gioco di parole, ma potrebbe essere molto di più. Nella mia esperienza di ascolto, nel confronto con altri helper (professionisti nelle diverse tipologie di aiuto) e nella lettura di diversi studi, è rilevante un dato, ossia che la maggior parte delle persone fa fatica a darsi tempo, un tempo non occupato dal fare, inteso come il produrre, darsi il permesso di darsi tempo per coltivare la propria crescita personale, il proprio saper essere e divenire.
Per helper, termine di cultura anglosassone, si intendono tutte le figure professionali che si occupano di accompagnamento, sostegno, e potenziamento delle capacità che una persona ha e che da solo non riesce a tramutare in stile di vita.
Nel mondo del lavoro a diversi livelli si sta iniziando a ricorre a queste figure di aiuto, coaching, counselor, tutoring, mentoring, sponsoring, proprio per agevolare e promuovere ambienti di lavoro favorenti la crescita non solo professionale ma anche relazionale, spirituale, esistenziale, poiché una migliore qualità della vita, migliora anche la qualità del proprio lavoro evitando e in alcuni casi prevenendo forme di burn out che metterebbero a rischio alcune aziende.
Negli ultimi anni sta accadendo che in alcuni contesti lavorativi aziendali, il rischio di drop-out si è alzato notevolmente; dirigenti con ruoli rilevanti a più livelli, hanno compreso che è necessario un cammino di ripensamento di questa logica imperante, per cui iniziano a nascere piccoli o grandi laboratori di formazione in cui temi di spiritualità, di potenziamento delle capacità umane, iniziano ad “entrare” a far parte della programmazione annuale del calendario aziendale.
In questo la Regola benedettina viene ad essere una fonte trasversale, capace di declinare armoniosamente quelle che sono le caratteristiche principali e valoriali di un lavoro portatore di dignità, di una strutturazione del tempo in cui vi sia equilibrio nel rispetto dei quattro livelli del sapere, in una visione antropologica che non ha al centro il “costo del prodotto” che facciamo, ma l’uomo nella sua multidimensioanlità, con le sue capacità, ma anche con i suoi limiti, non obbligato ad un pressione della perfezione ma orientato al riconoscimento delle unicità, in un tempo che favorisca e costruisca ricerca di senso per l’oggi e annunci speranza per il domani.
E allora potremmo scoprire che sostare cinque minuti della nostra giornata, potrebbe diventare un importante esercizio ascetico capace di educarci a vivere in generatività la nostra vita, capaci di creare valore senza rinunciare ai valori perché ci riconosciamo creature.
—
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it
—