Covid 19 e telemedicina, risorsa e limite

Passi avanti con il sistema delle ricette dematerializzate, ma per i pazienti più anziani si avverte la mancanza del rapporto diretto per diagnosi e cura. Medici di famiglia, presenti sul territorio, ma ancora senza dispositivi di protezione
Alfredo Falcone/LaPresse

«In questa fase di emergenza la telemedicina ci aiuta tantissimo, ma ha dei limiti. E il più grande è che con questo nuovo approccio viene meno il contatto diretto fra medico e paziente, che offre la possibilità di una condivisione più piena, anche emotiva, ed è parte integrante del nostro lavoro».

La dottoressa Floriana Trabucco, medico di medicina generale, opera in un piccolo comune alle porte di Roma, dove i cittadini per lo più si conoscono tutti da anni e dove il medico di base è spesso anche un amico e un confidente, comunque sempre una persona a cui affidarsi, un punto di riferimento.

Ed è proprio nel cuore di questa relazione fra medico e paziente che risiede il limite più grande della medicina a distanza, indispensabile in questo tempo di emergenza dovuto alla diffusione del coronavirus. A mancare è la manualità, la gestualità, quel guardarsi negli occhi che rassicura e spesso è già cura, e che è particolarmente prezioso per le persone più anziane, che insieme al medico magari leggono le ricette, ripetono a voce alta il nome dei farmaci e le dosi da prendere.

Qui né il telefono, né WhatsApp né i sistemi di videochiamata come Skype possono aiutare. «Molti fra i pazienti più avanti negli anni hanno difficoltà con le nuove tecnologie – continua la Trabucco – magari hanno il cellulare ma senza WhatsApp e non sanno fare videochiamate o inviare foto e referti. Quindi dobbiamo misurare il nostro approccio sul tipo di paziente che abbiamo davanti». «Certo – spiega – ci viene in aiuto il fatto che conosciamo bene i nostri pazienti, spesso da anni, la loro storia clinica e le condizioni di salute attuali, e ci affidiamo anche all’intuito».

Inoltre le nuove tecnologie sono utili in alcuni casi, come l’invio di ricette per posta elettronica o un primo consulto, ma non sono applicabili per tutte le patologie e in tutti i contesti: «gli interventi di piccola chirurgia come la sutura, l’incisione di una cisti, la diadermocoagulazione di un fibroma, un elettrocardiogramma, l’asportazione di tappi di cerume sono di routine ma in questo periodo non è stato possibile eseguirli».

E comunque il contatto diretto può fare la differenza anche in sede di diagnosi: «Stamattina è venuta in ambulatorio una persona anziana dicendo che sospettava di avere un’allergia. Ho dovuto visitarla ed è emerso che era herpes zoster. La stessa patologia invece ho potuto diagnosticarla in una ragazza semplicemente osservando una foto che mi ha inviato su wa».

È l’Osservatorio sull’Innovazione digitale in Sanità del Politecnico di Milano a confermare i limiti della telemedicina.

Dall’ultima ricerca emerge che in Italia il modello di cura a distanza nella sanità pubblica non decolla per due motivi: mancano le tariffe per pagare le prestazioni effettuate da remoto, e oltre ai pazienti anche molti medici hanno una scarsa cultura digitale.

Con riferimento all’epoca precedente la diffusione del coronavirus, si osserva che solo il 4% dei medici specialisti e il 3% dei medici di medicina generale hanno utilizzato soluzioni di televisita, anche se il 50% vorrebbe utilizzarle.

Riguardo le modalità di comunicazione medico-paziente, solo il 10% dei medici specialisti e il 18% dei medici di medicina generale utilizza piattaforme di comunicazione certificate, mentre più diffuso è l’utilizzo di strumenti come WhatsAppche pure non dà garanzie in termini di privacy – per condividere con i propri pazienti documenti (67% dei medici specialisti e di famiglia) e informazioni di natura clinica (60% e 57%).

In epoca di pandemia da coronavirus, quando emerge chiaro il potenziale delle nuove tecnologie in tutti gli ambiti e non meno in sanità, è dunque necessario uno sforzo corale per incentivare le visite virtuali e ridurre all’essenziale il ricorso all’ambulatorio e all’ospedale e i conseguenti rischi di contagio.

Al riguardo, preziose sono le linee guida messe a punto dal ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità, e viene in aiuto anche il via libera dato dalla la Protezione Civile il 20 marzo scorso alla procedura di trasmissione della ricetta elettronica via email o con messaggio sul telefono del paziente.

Si può fare ricorso anche alla cosiddetta “ricetta dematerializzata” che funziona così: il medico fa la prescrizione e invia il numero di ricetta elettronica (NRE) al richiedente tramite posta elettronica, comunicazione telefonica, SMS, whatsapp, telegram o un’altra applicazione per smartphone che consente lo scambio di messaggi e immagini.

L’assistito viene meno il contatto diretto fra medico e paziente, con codice NRE e la tessera sanitaria può recarsi direttamente in farmacia. Tecnologia a parte, nei centri più piccoli può essere il medico stesso a portare in farmacia le ricette o i farmacisti a recarsi presso gli ambulatori medici per prenderle.

Al di là del metodo utilizzato l’imperativo è comunque “proteggersi per proteggere”, anche considerando che – è l’esperienza della dottoressa Trabucco – i medici di medicina generale non possono fruire di dispositivi di protezione come tute, guanti, occhiali e mascherine, e devono piuttosto procurarseli a proprie spese, in un mercato che spesso fa lucro dell’emergenza.

«Di mascherine – racconta  – quattro me le ha date il sindaco, altre sei o sette la asl, io me ne sono comprata oltre 100 spendendo tanti soldi …alla fine ognuno fa come meglio può ma non siamo dotati di dispositivi di protezione, per cui possiamo essere portatori ma non lo sappiamo perché non ci hanno fatto nessun tampone, e nello stesso tempo possiamo essere a rischio perché, eccetto le persone anziane che non escono da casa, non possiamo fare una valutazione di tutti i pazienti e rilevare i portatori sani, gli asintomatici».

Sarà anche per questo che è ridotto il numero di pazienti che si recano direttamente in ambulatorio perché hanno paura del contagio. Che sia al mattino o al pomeriggio però, la dottoressa Trabucco è sempre presente: “ce la stiamo cavando bene finora”. E chissà che questa fase di emergenza non possa strutturare nel tempo delle preziose buone pratiche.

 

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons