Covid 19 e riti online
Messa delle palme, poi la commemorazione dell’ultima cena il giovedì santo, la straziante e commovente omelia di padre Cantalamessa il venerdì, la Veglia pasquale e la messa del giorno della festa più importante del mondo cristiano. Tutto online, a causa dell’emergenza Covid 19, in diretta da una Basilica di San Pietro artisticamente ricca e tristemente vuota. Una dozzina di persone assistono alle celebrazioni, adeguatamente distanziate le une dalle altre, una decina di chierici un po’ imbarazzati compongono l’équipe dei celebranti. E poi i 9 cantori, ai 150 centimetri canonici (in tutti i sensi). Dietro le quinte coloro che assicurano la copertura mediatica. In tutto e per tutto una cinquantina di persone, compresi gli usceri. È questa la Pasqua in epoca di coronavirus. Milioni e milioni di fedeli stanno seguendo in tutto il mondo i riti vaticani della Settimana Santa, con ogni probabilità dando vita a manifestazioni religiose come numericamente non se ne sono mai viste, a memoria d’uomo e di libri. Centinaia di milioni di persone che, in mancanza di celebrazioni pasquali dal vivo, e disponendo di più tempo libero va detto, decidono di ripiegare sulle trasmissioni mediatiche dei riti pasquali. Quel che non è riuscito a fare la struttura ecclesiastica, è riuscito al Covid 19: riunire la celebrazione della Settimana Santa più numerosa mai vista.
Trionfo della società dello spettacolo? Anche la messa più importante dell’anno ridotta a uno show? Potrebbe sembrare a qualcuno, anche se in scena questa volta non va un’operetta qualunque, ma la tragedia più conosciuta al mondo, la Passione di Cristo. Secondo i criteri dello show-business, una noia mortale, un rito apparentemente senza ritmo e pathos televisivo. Ma c’è, questo sì, una profusione di simboli di cui la tv è golosa; certo non il cavallino rampante, né una Fender Stratocaster, e neppure il susseguirsi noioso dei talk show politici. Ci sono le palme, le croci, le icone, l’acqua, il vino. Uno sconvolgimento delle regole mediatiche.
Lo strumento digitale manifesta così, in modo quasi stucchevole, la sua neutralità: è un semplice “canale” che può veicolare il cantante di turno o la croce. Il potente di questo mondo di turno o il servo dei servi. Non è demoniaco il mondo digitale, ma può diventarlo. Di fronte al Male costituito, rappresentato dal Covid 19, il Male che si nasconde e che sfugge alla caccia, il digitale appare un nuovo baluardo per la difesa dalla malattia, ma anche per preservare la socialità umana, nel momento in cui la solitudine diffusa sembra ridurla a poca cosa. Il digitale, pensiamolo bene, in quest’emergenza da pandemia, di fronte a tante certezze che si sgretolano, permette di far giungere fino ai più remoti angoli del mondo, anche ai malati negli ospedali, la speranza di remissione, anche quella di Gesù. Il crocifisso di San Marcellino al Corso diventa la misura dell’amore di Dio per noi. L’icona della Salus populi romani la certezza di uno sguardo materno. Il digitale può altresì permetterci di non pensare solo a quello che ci manca, ma anche all’essenza della vita umana, che sussiste anche in prigione. E poi il digitale permette di farci conoscere gli eroi nascosti che si occupano dei malati e dei poveri, non le star del calcio né quelle della musica, ma il medico di Codogno, l’infermiera del Bronx, il portantino di Wuhan. Ancora, il digitale in questa pandemia consente di far sentire il mondo più che mai un villaggio globale, ma anche locale. Il virtuale rimanda al reale e lo rende in certo modo più reale del reale, perché è nella mancanza che si raggiunge e si capisce il pieno senso delle cose, non nella pienezza.
p.s. Nessun dubbio ormai: il digitale è un servizio pubblico, un bene comune. Facciamo in modo che non resti solo un bene privato, nelle mani di un manipolo di potentissimi dittatori transnazionali dell’inconscio.