Covid 19, Cile al tracollo tra disuguaglianze e divari culturali
È ben difficile fare il bene quando si pensa male. È la lezione che se ne trae leggendo, o rileggendo, le eterne pagine di Manzoni su donna Prassede. Le idee fisse di questo personaggio e la loro rigidità le impediscono di far il bene della sua assistita, Lucia, di cui non decifra lo spirito né la realtà, fraintendendo il suo agire. Applica su di essa una disciplina errata anche perché questa ragazza povera proviene da un mondo a lei estraneo, incomprensibile ai suoi occhi.
Qualcosa del genere sta avvenendo in Cile dove la pandemia pare stia annunciando ad portas una tormenta perfetta, nella quale la combinazione di rigidità mentale e di criteri sbagliati adottati dal governo potrebbe provocare una situazione più critica di quella vissuta in Italia e Spagna.
Cerca di porvi rimedio la decisione di avvicendamento alla Sanità di un nuovo ministro che, si spera, segua una migliore strategia. Ma ciò avviene mentre la curva dei contagi si impenna drasticamente e, con essa, quelle dei casi critici e dei decessi. Nell’ultima settimana la media giornaliera dei contagi ha superato i 5-6 mila casi, mentre i decessi da poche decine al giorno ora si contano a centinaia.
Il ministro dimissionario lascia il suo posto cento giorni dopo aver gestito la pandemia prestando ascolto ad alcune idee, tra queste quella della cosiddetta “immunità di gregge”, che oltre ai vari dubbi che suscita nella comunità scientifica non risolve un problema di fondo: quello di evitare il collasso di un sistema sanitario superato dal numero di casi critici, che incrementano i decessi. Eppure pare sia stato questo il criterio seguito, nonostante dalla società civile e da centri di ricerca siano stati emessi segnali d’allerta sugli effetti di tale strategia.
L’80% dei più di 170 mila contagi si sono verificati nella regione metropolitana, attorno alla capitale, dove vive circa la metà dei 17,5 milioni di cileni. A marzo i primi focolai si sono sviluppati nella zona orientale della capitale, dove risiedono i ceti più abbienti che, grazie anche a una buona alimentazione, a migliori condizioni fisiche e a un migliore sistema sanitario, hanno superato facilmente la malattia.
Era il momento di creare un rigido cordone sanitario per evitare la propagazione del male a quelli più popolosi e poveri, da dove proviene un numero importante di lavoratori che ogni giorno si spostano alla zona orientale: domestiche, giardinieri, badanti, infermieri, lavoratori del commercio, etc. Quando il contagio ha preso ad estendersi a macchia d’olio, è apparso chiaro che gli ospedali della regione non erano in grado di sostenere una crescita esponenziale di degenze.
Nonostante ben cinque dossier di vari esperti che chiedevano una strategia diversa, il ministero della Sanità, in ogni bollettino giornaliero, ha invece insistito nello sforzo per aumentare i letti in terapia intensiva e i respiratori, dando a intendere all’opinione pubblica che la lotta alla pandemia poteva condursi in tal modo, più che limitando il contagio. Seguendo tale logica, sono state decretate “quarantene dinamiche”, applicate a seconda dell’emergenza, intervenendo come pompieri sui focolai, ma senza mai giocare d’anticipo nonostante da più parti venisse segnalato di aumentare tamponi e di seguire l’evoluzione dei contagi.
A fine aprile si ravvisava un certo trionfalismo nel governo, che parlava di riapertura graduale, di «nuova normalità» e di «curva appianata». Ma, da maggio in qua, il migliaio di casi giornalieri si è moltiplicato per cinque o sei, con tassi che hanno superato Spagna ed Italia, al punto da far presagire il ripetersi in Cile del “caso Lombardia”.
La poca elasticità ad accogliere idee diverse e la scarsa predisposizione ad affrontare la crisi sintonizzandosi con la comunità scientifica e la società civile, hanno fatto il resto. Ma hanno anche rivelato come le autorità di governo non avessero idea degli effetti potenziali, e ora purtroppo reali, della pandemia nei quartieri poveri, dove in piccole abitazioni si vive in sette od otto e male alimentati, oppure tra i 120 mila cileni che abitano i tuguri delle oltre 800 baraccopoli del Paese, senza servizi, in costruzioni fatte di lamiere e legno pressato, fredde d’inverno e forni d’estate.
«Non avevo idea dell’estensione» della povertà e dell’affollamento, ha ammesso candidamente l’ormai ex ministro Mañalich. Eppure non bisognava scavare molto per sapere che un 30% dei lavoratori vive nella precarietà e che non sono un mistero i numeri della disuguaglianza dopo che le proteste scoppiate nell’ottobre scorso hanno scorso il velo del silenzio che negava tale realtà.
Chi vive bene e spende l’equivalente di un salario minimo in una cena familiare al ristorante, non coglie facilmente la povertà nelle sue dimensioni, come Prassede non riusciva a decifrare la realtà di Lucia. Un indicatore che le disuguaglianze sono spesso anche divari culturali. C’è da sperare che il nuovo ministro possa prendere le redini della situazione con maggiore apertura e buon senso. Questa pandemia non ci sta facendo conoscere un nuovo male, ma ci sta insegnando tanto su noi stessi, sui nostri limiti e su quelli dell’ordine sociale ed economico finora considerato parte della normalità.