Covid 19, carote di ghiaccio e insetti in quarantena: riflessioni per adattarsi e cambiare
Fra le tante anime di questa strana estate, sospesa fra sollievo e preoccupazione, c’è l’immenso bisogno di normalità che tutti avvertiamo. Ci serve per superare le sofferenze e i lutti, l’angosciosa memoria del dolore vissuto sulla pelle.
Abbiamo il desiderio di lasciarci alle spalle i lunghi mesi di paura, incertezze e restrizioni; respirare (anche senza l’interposizione di una mascherina) l’aria pulita e sicura dell’estate, una boccata di ossigeno e di libertà che alleggerisca il cuore e il cervello. Questi non sono sentimenti nuovi: appartengono a tante epoche e a molte altre storie. I nostri nonni e bisnonni hanno conosciuto molti tipi di oppressioni, restrizioni alle libertà personali e minacce alla sicurezza personale oggi inimmaginabili nel nostro Paese e in gran parte dell’Occidente.
Guerre, epidemie e calamità naturali hanno condizionato la vita degli individui e l’organizzazione della società civile praticamente di ogni generazione della storia umana. Noi costituiamo una fortunatissima eccezione; da più di 70 anni viviamo in condizioni di sicurezza e garanzie crescenti: a partire dal dopoguerra, quando sono state gettate le basi dello stato di diritto e dello sviluppo sociale del Paese, il nostro livello di wellfare non ha fatto che progredire.
Riflettendo sul nostro passato, possiamo essere certi che la tanto agognata normalità tornerà; non è mai esistito uno sconvolgimento sociale permanente. Uno stato “normale” della vita delle persone esiste sempre, per la maggior parte del tempo, fra una difficoltà e l’altra.
Una curiosa notizia scientifica recente, relativa ai progressi nelle analisi dei carotaggi dei ghiacciai, indica con suggestiva chiarezza questo fenomeno: ad esempio agli sconvolgimenti sociali conseguenti alla grande peste nera del 1348 segue la riduzione dei metalli depositatisi nei nevai negli anni 1349-53, segno di un tracollo della produzione industriale. L’impatto delle grandi crisi del genere umano è talmente gigantesco da lasciare tracce profonde nel mondo intorno a noi.
Poi le cose tornano gradualmente al loro stato naturale: che nel frattempo, però, è cambiato.
Riguardo a cosa ci aspetta nel prossimo futuro, i numeri dell’epidemia parlano chiaro, in Italia come nel resto del mondo. Allo stato attuale la capacità di controllare la diffusione del Coronavirus dipende da diversi fattori, ma il principale determinante restano i comportamenti degli individui.
Lo mostrano le dolorose imposizioni di nuove chiusure in molti Paesi: in assenza di misure efficaci di prevenzione, la diffusione incontrollata di nuovi casi si verifica anche dove il peggio sembrava passato. Da noi, in Italia, il numero di malati dopo la rimozione delle limitazioni principali (dal 3 giugno), rapportato alla durata del periodo di incubazione, mostra come il virus abbia ripreso a circolare subito, prima rallentando, poi interrompendo e infine invertendo l’andamento della curva in alcune Regioni.
A livello nazionale il dato si è stabilizzato in un numero pressoché costante di positivi (tanti si ammalano, altrettanti guariscono o, purtroppo, rimangono vittime della malattia).
I trend, in generale, sono in salita, mentre si abbassa in fretta l’età media dei contagi, con buoni esiti sulle manifestazioni cliniche della malattia, ma effetti negativi sulla sua diffusione (i giovani hanno molti più contatti sociali degli adulti e degli anziani).
Insomma, il Coronavirus non se ne è andato, circola facilissimamente e ha l’aria di voler restare a lungo insieme a noi; un dato di fatto che non ha senso negare, urlando a destra e manca opinioni e pareri degli esperti più variegati. Dobbiamo farci i conti e imparare.
Sempre, in ogni epoca, l’ordinamento sociale e le consuetudini sono plasmate dagli eventi e dalle circostanze: la cosa da chiedersi è fino a che punto la “normalità” che ci aspetta potrà assomigliare a quella che conosciamo.
Agli sconvolgimenti profondi le società umane reagiscono in modo piuttosto schematici, che si possono sintetizzare in tre fasi. La prima è la reazione immediata, di grande incertezza e con poche indicazioni da seguire. La priorità è sopravvivere, mettere in sicurezza le persone e le cose preziose. Gradualmente, superato il primo impatto (anche psicologico) subentra un atteggiamento diverso, derivante dal sollievo per essersi messi in salvo, e ciascuno riprende ad interessarsi alle altre priorità. Si alza la testa dall’acqua e si comincia a guardarsi intorno, cercando di capire cosa è cambiato e come far ripartire la vita di prima. Da qui, quando la parola chiave è adattamento, si fondano le premesse per la terza fase, la più lunga e la più importante.
È ciò che ci sta succedendo in queste settimane e che probabilmente avrà una durata molto lunga: giungere a consolidare un modo diverso di fare le cose, adatto al nuovo contesto. Un cambiamento articolato a lungo termine, che si fonda sulle evidenze accumulate, e richiede riorganizzazione, una notevole quantità di risorse, grande flessibilità mentale e sociale.
Questa è la sfida: passare dall’adattamento al cambiamento. Dal pensare “quando tornerà tutto come prima?” al chiedersi “come possiamo modificare le nostre abitudini per tornare a socializzare lavorare in sicurezza?” La domanda giusta non è quando tornerà tutto come prima; chiediamoci non “se”, ma “in cosa” il mondo di domani sarà diverso, e proviamo a immaginarlo addirittura migliore.
Una recente e simpatica serie di studi sugli insetti e su altri animali analizza diversi tipi di comportamento con i quali i membri delle comunità si difendono dai soggetti ammalati, allontanandoli o spostando altrove le attività sociali. Ebbene, quasi tutti i primati sono capaci di mantenere un certo grado di interazione fra individui (essenziale per l’organizzazione del branco) anche in periodi epidemici, trovando modi “alternativi” per compiere i rituali sociali e proteggendo i membri più fragili. Beh, forse ci possiamo riuscire anche noi…