Costruire è tutta una storia

Nonostante sia calabrese, Iole Parisi può ben dire di aver sciacquato i panni in Arno, dato che da quasi vent’anni anni vive ed esercita la sua professione di architetto in Toscana, dove è giunta subito dopo la laurea. Ma la sua vita non è solo progettare edifici. Ha alle spalle una forte esperienza personale che mi racconta con un accento dolce ma deciso, come di chi, avendo conosciuto alcuni aspetti dolorosi della vita, è riuscito ad venirne fuori con un forte e profondo ideale di vita. Avevo otto anni con un fratellino di sette – mi racconta -, quando mamma è morta in un incidente stradale. Mio padre ha saputo lenire questo grande dolore con un amore ed una attenzione tutta particolare nei nostri confronti, e posso così dire che, nonostante tutto, crescendo la serenità non ci è mai mancata. Papà, dirigente di una certa importanza in un ministero statale, non era un cattolico praticante, ma nonostante questo ci ha educati senza costrizioni di nessun genere e, per onestà, ha perfino voluto che, arrivati all’età di circa 11 anni, noi conoscessimo il catechismo e decidessimo se accostarci o meno ai sacramenti. Ho così fatto la prima comunione a dodici anni, attirata dalla fede in Gesù. Continua Iole: Ero però alla vigilia – neppure io lo sapevo – di una grossa crisi che si sarebbe scatenata in me qualche anno dopo, tramite alcuni compagni di scuola coinvolti da idee politiche estremiste. Erano gli anni delle manifestazioni femministe che, anche se prive di giuste aspirazioni come la libertà e l’uguaglianza, spesso venivano propugnate con atteggiamenti violenti e provocatori. Con altre ragazze e con tutto l’entusiasmo della prima giovinezza – avevo circa 14 anni – mi sono così lasciata coinvolgere da questi compagni di scuola, allontanandomi progressivamente dalla pratica religiosa pur mantenendo un certo rapporto intimo, personale, con Dio. Esternamente però diventava sempre più contestataria, Iole, perennemente contro tutto e contro tutti, ed aveva assunto un atteggiamento duro perfino nei riguardi di suo padre che pur l’amava assai. Una situazione che non mi rendeva felice – continua -, ma che, anzi, mi costringeva come in un baratro di buio e di tristezza, al quale non sapevo più come sottrarmi. Finché… Finché un giorno è avvenuto qualcosa. A scuola ero stata scelta con altre per seguire un corso di ginnastica artistica, in una palestra di Catanzaro. Nuove amicizie, nuovi orizzonti, nuovi confronti che mitigavano un po’ la rivolta che mi divorava il fondo dell’anima. Frequentava lo stesso corso Laura, una coetanea che mi ha subito attirato per la simpatia che sprigionava e per la sua disponibilità nei confronti di tutti. Era come un piccolo sole in un ambiente spesso dominato da un clima di antagonismo se non di rivalità. Ho incominciato a fare la strada di ritorno a casa con lei, a scambiare idee e aspirazioni, finché un giorno mi ha raccontato una storia vera, che mi ha lasciato senza fiato per la novità e la bellezza del messaggio che portava. Era la storia di Chiara Lubich e delle sue prime compagne in tempo di guerra. La nota storia della scoperta che ogni uomo è chiamato al più grande tra gli ideali, quello dell’unità di tutti gli uomini, in Gesù. Ricordo che da allora – precisa Iole – ho voluto saperne sempre di più, sempre di più da Laura. Questo d’improvviso mi è parso quell’estremismo che cercavo e per il quale avrei voluto donare la mia vi- ta. Questo era il mio vero radicalismo. Non potevo perciò che essere conseguente; e così, con la decisione propria dei giovani, ho voltato pagina decidendomi a provare una vita improntata all’amore e non alla ribellione. Ho riscoperto – o forse scoperto per la prima volta – il vangelo come il libro della rivoluzione per eccellenza, quella fatta prima di tutto contro noi stessi, e mi ci sono buttata. Iniziava allora il movimento dei giovani dei Focolari, e per vari anni con una ventina di ragazze e ragazzi della sua città, Iole si è occupata di famiglie povere dei bassifondi di Catanzaro, ha collaborato in varie iniziative per raccogliere fondi per il cosiddetto Progetto Africa, ha cercato di costruire rapporti vitali con chiunque secondo l’ideale che animava quei giovani. Sentivo ogni giorno di più – riprende Iole – esplodere dentro di me quella gioia che avevo perso, una gioia vera, non superficiale; ovviamente, ho ritrovato un rapporto profondissimo con mio padre. E qui le è capitata una grossa prova… Avevo ormai 16 anni e proprio in quel momento così bello della mia vita a papà è stata diagnosticata una grave malattia tumorale, ormai irreversibile: un fulmine a ciel sereno. L’impatto con questo grande dolore mi ha come fatto precipitare in una voragine buia e senza fondo, nella quale echeggiava solo un perché senza risposta. Ma in quel periodo avevo sentito parlare di Gesù crocifisso, del suo lacerante grido dalla croce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?, un grido come quello che risuonava nell’anima mia. E lentamente è emersa la riposta: se lui, che era Figlio di Dio, che era Dio, si era fatto simile a noi fino a quel punto, allora lui poteva capirmi: lo senti- vo al mio fianco, non ero più sola. Un Dio che si fa uno con noi così non poteva che amarmi incondizionatamente. Con lui, sono riuscita ad affidarmi al Padre, e ad accettare quel dolore cupo e straziante. Inoltre non ero sola anche perché altri amici del movimento mi sostenevano. Posso dire che abbiamo vissuto questo periodo veramente insieme. Mi sono buttata ad aiutare mio padre concretamente, cercando in tutti i modi di alleviargli le sofferenze e ho constatato, giorno dopo giorno, che anch’egli si impegnava a non farci pesare le sue sofferenze, a mantenersi in un atteggiamento di amore verso tutti coloro che andavano a trovarlo nella clinica dove si era dovuto ricoverare e che, provvidenzialmente, era gestita da un amico di famiglia. Finché è accaduto che il papà di Iole ha voluto riaccostarsi ai sacramenti. In quel periodo avevano avuto dei colloqui bellissimi nei quali la figlia gli aveva confidato l’importanza che aveva per lei vivere ciò che il vangelo proponeva, e che lui stesso condivideva sempre più. Dopo pochi mesi, a 57 anni, lasciava i due figli soli, ancora molto giovani. La famiglia di una zia li ha subito accolti in casa e gli amici del movimento gli hanno fatto sperimentare tutto il calore e la condivisione di una famiglia allargata ma vera, reale. Precisa Iole: Nonostante l’immenso dolore, tutto era mitigato da questo amore e colmato dal rapporto che anche ora poteva continuare con papà, vivo in Dio. Pian piano una grande pace è scesa dentro di me. Sono passati molti anni ormai… e la vita continua… Sì, è vero – annuisce -. Credo di poter dire che col passare degli anni, fermi restando questi valori, il che tutti siano uno di Gesù ha maturato in me sempre più la coscienza della fratellanza universale, di far parte di una famiglia che si estende su tutta la terra e sa comprendere e valorizzare popoli, usi, costumi e anche religioni diverse dalla mia. Un esempio? Frequentavo ancora la facoltà universitaria di architettura quando un giorno è scoppiata una violenta lite tra un mio compagno ed uno studente iraniano, musulmano osservante. Con un’altra compagna mi sono adoperata per mettere pace tra i due; da quel gesto è nata un’amicizia che è andata via via crescendo anche con tutta la famiglia di Hossein, che era sposato. Da allora ci hanno spesso invitate a pranzo, ed in queste occasioni era normale parlare amichevolmente sia della religione cristiana che dell’Islam. Il rapporto è diventato sempre più profondo e sincero, e loro non perdevano occasione per farci domande sul vangelo e sull’ideale dell’unità che incominciavano a conoscere. Prima di rientrare in Iran, dopo la laurea, Hossein mi ha confidato: Mi avevano detto che nessuno oggi vive il cristianesimo così come è scritto sul vangelo, ed io ci ho creduto finché non ho incontrato voi. Stavo infatti incominciando a pensare che ormai il cristianesimo era morto, ma mi sono dovuto ricredere: è vivo, eccome. Alla partenza per l’Iran, recandosi alla stazione per salutarli, i nuovi amici hanno presentato loro sei famiglie musulmane residenti in Italia; da allora, in particolare con una di esse, si è stabilita un’amicizia che dura tuttora. Quale, oggi, l’impegno di Iole-architetto? Devo dire – conclude – che anche nella mia vita professionale cerco di mettere la stessa decisione, lo stesso impegno a mantenere vivo un rapporto di rispetto, collaborazione e fiducia – che spesso diventa reciproco – con i vari tecnici, operai, artigiani con i quali sono in contatto. L’architettura che ne deriva, gli spazi che si costruiscono, sembrano spesso portare in sé una traccia visibile di questi rapporti, riescendo a comunicare armonia, accoglienza e bellezza. È il mio modo di dare, con altri, un piccolo contributo a quel disegno di fraternità universale nel quale credo profondamente. E che continua ad affascinarmi

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