Costruendo ponti. Angus Deaton, Nobel per l’economia

L'originale del contributo dello studioso scozzese nell'analisi e interpretazione dei consumi e della povertà: «Se non capiamo come i numeri vengono messi insieme e cosa significano, corriamo il rischio di suggerire politiche fondamentalmente sbagliate».
Nobel Deaton

«L’assenza di dati è uno scandalo che non viene oggi affrontato in modo adeguato. Se non capiamo come i numeri vengono messi insieme e cosa significano, corriamo il rischio di vedere problemi dove in realtà non ve ne sono e di perdere di vista bisogni urgenti che chiedono una soluzione (…) in altre parole di suggerire politiche fondamentalmente sbagliate»”. Questa frase, tratta dal suo ultimo libro La Grande Fuga, sintetizza molto bene la preoccupazione di fondo che ha caratterizzato tutta l’attività scientifica di Angus Deaton, fresco vincitore del premio Nobel per l’economia 2015. La “grande fuga” di cui si parla è quella dell’umanità dalla povertà e dalla morte precoce, una storia che è anche quella della famiglia di Deaton, che in una generazione, da un piccolo villaggio minerario dello Yorkshire, in Gran Bretagna, arriva attraverso gli studi serali del padre che lo trasformano da fattorino ad ingegnere, fino a Cambridge, dove Angus studia matematica, e poi alla prestigiosa università di Princeton dove è attualmente professore di Economia e Affari Internazionali.

Il comitato dell’Accademia delle Scienze ha selezionato il nome di Deaton, che girava già da qualche anno tra gli addetti ai lavori e i bookmakers per i suoi contributi in tre aree distinte di ricerca: l’analisi della domanda di consumo, le scelte intertemporali e la misurazione del benessere e della povertà. In tutti questi ambiti la preoccupazione principale è stata sempre rivolta alla possibilità di avere maggiori dati, più affidabili e di come analizzarli in maniera più precisa e rigorosa, in modo da poter pervenire a conclusioni teoriche e a politiche pubbliche sempre più informate ed efficaci.

Il consumo rappresenta un ambito fondamentale della vita economica e il principale oggetto di studio di Deaton. Prima degli anni ’80 quando apparvero i suoi principali contributi (assieme al collega John Muellbauer) gli strumenti utilizzati per analizzare gli effetti di variazioni di reddito e prezzi sui consumi delle famiglie davano risultati a dir poco contraddittori e in constante disaccordo con i dati reali. Attraverso il cosiddetto Sistema di Domanda Quasi Ideale, Deaton e Muellbauer sono riusciti a sviluppare un meccanismo di stima sufficientemente complesso da cogliere aspetti rilevanti del comportamento economico, ma anche abbastanza semplice da poter essere utilizzato in concreto per le stime statistiche. Questo sistema che consente di studiare le relazioni tra la domanda di un certo bene e i prezzi degli altri beni, il reddito, le dimensioni del nucleo familiare e molte altre variabili, è ancora oggi largamente utilizzato per valutare con adeguata precisione gli effetti delle politiche pubbliche, costruire gli indici dei prezzi e confrontare la qualità della vita tra paesi diversi o tra periodi diversi nello stesso paese.

Una seconda importante innovazione introdotta dai lavori di Deaton ha a che fare con il livello di analisi. C’è chi guarda alla foresta e c’è chi si concentra sugli alberi che la formano questa foresta. Tradizionalmente la macroeconomia si è concentrata sulle foreste, sui valori “aggregati” cioè del consumo e del risparmio delle famiglie, degli investimenti delle imprese, dei trasferimenti e della spesa pubblica dello Stato. Ma l’utilizzo di queste variabili ha storicamente creato non pochi problemi nell’analisi, per esempio, del “comovimento” di reddito e consumo. Studiando il tema, Deaton, arriva a una conclusione radicale: se vogliamo comprendere le foreste dobbiamo imparare a guardare i singoli alberi. Anche per analizzare cioè le dimensioni globali dei sistemi macroeconomici, è necessario partire dai comportamenti dei singoli individui e famiglie e poi procedere all’aggregazione di tali dati per “derivare” i valori totali da quelli parziali. Ma mentre i dati aggregati sono facili da reperire, quelli individuali erano un tempo, molto rari. Deaton si è impegnato a fondo perché le cose, in questo senso, potessero cambiare. Con la Banca Mondiale agli inizi degli anni ’80 avviò una serie di iniziative per la misurazione, attraverso sondaggi e analisi campionarie, della qualità della vita e della povertà in tutto il mondo. I dati a livello individuale delle singole unità familiari sono ormai largamente disponibili e non solo il lavoro di Deaton ha fatto comprendere l’importanza della loro sistematica raccolta, ma ha anche contribuito grandemente a sviluppare nuovi e sofisticati metodi di analisi.

Il terzo grande tema degli studi dell’economista scozzese riguarda la misurazione del benessere e della povertà. Si parte da un dato di fatto: il progresso materiale produce diseguaglianza. Non è più possibile credere a teorie consolatorie come quella della convergenza o dello sgocciolamento, che in qualche modo tendono a sottovalutare l’iniquità insita nel concetto stesso di progresso materiale. Come aiutare allora chi rimane indietro, visto che non possiamo contare su nessun meccanismo automatico che leghi la riduzione della povertà per molti all’aumento della ricchezza per pochi? Ci sono ancora quasi un miliardo di persone che vivono in povertà estrema.  Basterebbero 28 centesimi a testa, per fargli oltrepassare uscire da quella condizione. Se i cittadini adulti dei principali paesi ricchi si quotassero, potrebbero eradicare la povertà dalla faccia della terra con un investimento di 15 centesimi al giorno. Perché allora la povertà è ancora lì a condizionare l’esistenza di milioni di persone che hanno la sola colpa di essere nate nel posto sbagliato? Indifferenza morale o mancanza di consapevolezza degli abitanti dei Paesi ricchi? Eppure destiniamo ingenti risorse agli aiuti allo sviluppo. Con quali effetti? Anche qui la risposta di Deaton è radicale: gli aiuti ai paesi in via di sviluppo semplicemente sono inefficaci quando non addirittura dannosi. L’idea di fondo è che se tutte le condizioni per lo sviluppo fossero presenti in un certo Paese, tranne il capitale necessario per avviarlo, quello stesso Paese sarebbe perfettamente in grado di procurarsi quel capitale sul mercato, a prezzi di mercato. Ma se le condizioni per lo sviluppo invece non sono presenti, fornire il capitale sarà del tutto inefficace e anche dannoso, perché quel capitale andrà a finanziare altro, governi corrotti e conflitti armati per esempio. Gli aiuti allo sviluppo rappresentano allora più una parte del problema che non la sua soluzione. Ma come fare allora ad assolvere i nostri obblighi di soccorso a chi è rimasto indietro nella “grande fuga” evitando contemporaneamente la trappola degli aiuti allo sviluppo? Per esempio invece di spendere nuovi soldi in Africa, si potrebbe iniziare a spendere quei soldi per l’Africa. Invece di lasciare la scelta alle case farmaceutiche private, le nazioni ricche potrebbero investire massicciamente per finanziare la ricerca contro la malaria. Questo è accaduto per esempio nel caso dell’HIV/AIDS, ma solo quando l’epidemia ha iniziato a minacciare i Paesi ricchi. I benefici di quelle ricerche ora ricadono, anche se in misura ancora insufficiente, anche sugli abitanti dei Paesi in via di sviluppo. Un altro esempio di aiuto non controproducente potrebbe essere quello legato alla protezione degli interessi commerciali dei Paesi poveri. Le organizzazioni internazionali dovrebbero offrire assistenza in materia di negoziati internazionali, soprattutto in ambito commerciale, in modo da compensare in qualche modo lo strapotere dei Paesi ricchi nelle negoziazioni che inevitabilmente tendono a proteggere gli interessi dei più forti a scapito di quelli dei più deboli. Potrebbero inoltre essere utile l’introduzione di sanzioni contro i prestiti a regimi non democratici e un vero meccanismo di embargo verso i beni esportati da questi Paesi. A tali misure si è sempra data scarsa applicazione, invece. Anche rinunciare alle misure di sostegno al reddito degli agricoltori nei Paesi ricchi favorirebbe la creazione di un vero mercato competitivo dal quale i Paesi poveri potrebbero trarre grande beneficio. Ed in ultimo, ma non per ultimo, viene il tema delle migrazioni. Affermare ipocritamente “aiutiamoli a casa loro” significa dire “non aiutiamoli”. Le analisi di Deaton ci dicono, infatti, che gli effetti dell’emigrazione temporanea sulla riduzione della povertà, superano di gran lunga quelli degli aiuti economici. Perché non rafforzare le borse di studio specialistiche e post-lauerea per i giovani dei Paesi in via di sviluppo, invece di limitarci all’invio di soldi? Ma perché la seconda strada è la più semplice, per noi! Ci consente di mettere a posto la nostra coscienza post-coloniale, senza sporcarci troppo le mani, senza l’incontro con la povertà, l’incontro vero col povero.

Le ricerche di Angus Deaton sono state innovative e influenti in diversi ambiti: teoria, misurazione, elaborazione statistica. Tutte legate da un comune denominatore, la capacità di creare ponti, di trovare connessioni e in definitiva di rimettere le scelte individuali al centro dell’analisi economica e sociale.

Che anche l’assegnazione del premio Nobel per l’economia possa portare l’attenzione del grande pubblico su temi importanti come questi ci pare fondamentale per il contributo che può dare alla creazione di una nuova coscienza diffusa e al rafforzarsi di una società civile globale, informata e attiva di cui il mondo ha sempre, e con maggiore urgenza, bisogno.

 

 

 

 

 

 

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