Costretti a fuggire

Il primo a dover subire l’esilio dicono sia stato Edipo che, perseguitato nella città di Tebe, fu costretto a rifugiarsi ad Atene. Ancor prima che nella storia, dunque, la fuga dalla propria terra è presente nella mitologia. Econ l’esilio, anche l’asilo, cioè la protezione offerta allo straniero perseguitato, quella che il re Teseo avrebbe offerto all’eroe greco. Ma quella dell’esilio, lungi dall’appartenere alla letteratura, è stata ben presto, tristemente, una vicenda da ascriversi alla storia, a volte di intere popolazioni, perseguitate per essere disperse o annientate, altre volte di singole persone. È quello che hanno provato personaggi noti dell’epoca antica come Abramo che guidò il suo popolo in esilio o Maometto fuggito dalla Mecca e dall’Abissinia a Medina. Ed anche Gesù, ancor piccolo, dovette scappare insieme alla sua famiglia per sottrarsi alla persecuzione di Erode. Lo ha ricordato lo stesso papa, che nell’Angelus dello scorso 19 giugno, ha rivolto il suo pensiero alla giornata mondiale del rifugiato che si sarebbe svolta l’indomani, invitando i cristiani a far sì che il loro amore si traduca in concreti gesti di solidarietà, perché chiunque si trova lontano dal proprio paese senta la chiesa come una patria dove nessuno è straniero. Ed è questo l’impegno di tante organizzazioni umanitarie ed enti internazionali, primo fra tutti l’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) che dal 1950 si prende cura di persone in pericolo. Il suo doveva essere un mandato di tre anni, legato alle conseguenze della seconda guerra mondiale. Ma i conflitti nel nostro pianeta sono ancora tanti e dunque eccolo ancora lì, quest’organismo dell’Onu, impegnato a salvaguardare, attualmente, la vita di 19 milioni di persone, di cui una parte sono richiedenti asilo. La giornata del rifugiato, che precedentemente veniva celebrata in ordine sparso in vari paesi, dal 2000, proprio per una risoluzione dell’assemblea generale delle Nazioni unite, è diventata Giornata mondiale del rifugiato. Si celebra il 20 giugno e vuole essere un momento per fermarsi e riflettere sulla drammatica condizione di milioni di persone in fuga dalla morte e dalla persecuzione. Il tema scelto per quest’anno è Il coraggio di essere rifugiato. Perché è il coraggio che ci vuole per sopravvivere a determinate condizioni. Scappare dalla guerra, perdere i propri cari, la casa, i beni, lasciare forse per sempre la propria terra, affrontare un viaggio pieno di incognite, trovarsi in un paese che non si conosce e di fronte ad un futuro dai connotati incerti, doversi ricostruire tutta la vita. Se non ci vuole coraggio per tutto ciò… È evidente, come afferma Laura Boldrini, portavoce dell’Acnur, che si tratta di persone che, se potessero, resterebbero a casa loro e più checostituire una minaccia per i paesi dove si spostano, sono da considerarsi come vittime. Queste vittime oggi nel mondo sono 9,2 milioni di persone. Di essi 3 milioni e mezzo vivono in Asia, oltre tre milioni in Africa, 2,1 milioni vivono in Europa, mezzo milione nel nord America, 36 mila nei paesi latino- americani e 76 mila in Oceania. Il 2004 è stato l’anno in cui si è registrato il numero più basso di rifugiati negli ultimi 25 anni. Una situazione dovuta soprattutto ai rimpatri volontari, ma che viene però controbilanciata da un dato negativo: l’aumento del numero degli sfollati, delle persone cioè che abbandonano la propria casa per motivi analoghi a quelli dei rifugiati, ma non escono dai confini nazionali. Per motivi storici e geografici l’accoglienza dei rifugiati nei vari paesi è diversificata. L’Iran, ad esempio, ne accoglie oltre un milione, mentre in Europa è la Germania che si situa al primo posto con quasi 900 mila persone. Nel nostro paese, impegnato soprattutto nell’accoglienza degli immigrati, troviamo circa 15 mila rifugiati mentre 7 mila sono le domande presentate nel 2004. In effetti, anche se una certa regolamentazione in materia di asilo esiste, non possiamo dire ancora di avere una legge organica. La maggior parte delle persone che arrivano da noi più che altro transita per il nostro paese verso il nord Europa. Spesso in Italia è stato adottato il sistema della protezione temporanea, un meccanismo attuato per far fronte ad afflussi massicci di rifugiati che rendono impraticabile l’esame individuale delle singole domande di asilo. In altre occasioni si sono adottate misure estemporanee che comunque denotano la mancanza di una strategia e di una legislazione adeguata. Dal 2000 in poi esiste il Piano nazionale asilo (Pna) volto a favorire un percorso di inserimento dei rifugiati nelle realtà locali. È un programma che vede coinvolti molti soggetti e in particolar modo le municipalità, sempre più protagoniste nel promuovere l’accoglienza e l’integrazione. Ma spesso succede che il lavoro di associazionismo cattolico e laico come strutture di supporto ed assistenza per persone vulnerabili, straniere e non, è ampiamente riconosciuto dallo stato, fino a diventare talvolta una giustificazione per abdicare ai propri doveri di assistenza, come afferma Nando Sigona, dell’università di Oxford nel volume edito da Relazioni internazionali Diritti rifugiati in Europa. E il problema è tuttora aperto. A renderlo più grave poi, pesano fatti recenti quali il coinvolgimento di immigrati in episodi di violenza che fomentano l’equivalenza immigrati/criminali o l’emergenza dei Centri di permanenza temporanea (Ctp) dove vengono portati tutti quelli che arrivano nel nostro paese, prima ancora di una successiva distinzione tra chi cerca lavoro e chi richiede asilo. Centri che straripano di gente e che sicuramente vanno ripensati, almeno nel modo in cui vengono gestiti. Nel frattempo è entrato in vigore dallo scorso aprile un nuovo regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato (secondo due articoli della legge Bossi-Fini) che decentra le audizioni e le analisi delle richieste di asilo. Da una commissione centrale a Roma si passa a sette commissioni territoriali, allo scopo di abbreviare i lunghi tempi di attesa, a volte fino a due anni, durante i quali queste persone sono di fatto prive di ogni diritto e rischiano di cadere nelle maglie dell’irregolarità, oppure di essere nel frattempo rimandate nei paesi d’origine. Ma solo tre di questi centri sono già operativi, gli altri si spera riescano a partire nel 2006.Sembra che uno dei nodi centrali di tutta la questione sia una sovrapposizione tra la vicenda dei richiedenti asilo e quella generale dell’immigrazione, anche perché le due categorie di persone arrivano comunque… sulla stessa barca. E così in nome della sicurezza dei nostri cittadini si rischia di passare sopra ai diritti e all’incolumità di questi perseguitati. In varie occasioni abbiamo ribadito le nostre preoccupazioni in merito ad alcuni aspetti della legge – afferma Walter Irvine, delegato in Italia dell’Acnur – come il trattenimento dei richiedenti asilo o la mancanza di una possibilità di ricorso con effetto sospensivo del provvedimento di allontanamento dal territorio italiano. Auspichiamo comunque un miglioramento della situazione. Tanti nodi da sciogliere, dunque, perché a nessuno sia negato il diritto di cittadinanza in questo nostro, tutto sommato, piccolo mondo. IL CORAGGIO DI ESSERE RIFUGIATO Una drammatica testimonianza dal Congo Brazzaville. Perseguitato dai ribelli un uomo decide di scappare. Riesce a salvarsi grazie all’aiuto di alcune persone che rischiano la propria vita. Nel mio paese mi chiamavano Mon-desir. Lavoravo nella polizia al commissariato del porto della mia città fino a quando nel ’97 non è scoppiata la guerra durante la quale ho dovuto lasciare la città, abbandonare la famiglia e gli amici senza sapere dove andare. I ribelli che volevano la mia morte sono andati a casa mia e hanno torturato mio padre per costringerlo a rivelare dov’ero nascosto. Quando ho saputo che mio padre era morto, ho deciso di non fuggire più. Sono tornato a casa perché ero convinto che i ribelli sarebbero tornati a cercarmi e infatti sono arrivati e mi hanno arrestato. Per sette mesi sono rimasto prigioniero nei loro campi dove ogni giorno facevano fuori qualcuno o ci sottoponevano a spaventose torture. Un giorno scoppiò uno scontro a fuoco tra i militari angolani e i ribelli, che sparavano anche su di noi. Io fui colpito a una gamba e rimasi steso a terra in mezzo ai cadaveri coperti di sangue. I soldati hanno creduto che fossimo tutti morti e hanno abbandonato il campo. Così abbiamo potuto fuggire e ci siamo messi in marcia per chilometri e chilometri nella foresta, finché siamo arrivati in un piccolo villaggio dove ho deciso di fermarmi perché non ce la facevo più a camminare. Il giorno dopo nel luogo in cui mi ero nascosto è passato un prete in macchina che mi ha raccolto, mi ha condotto nel suo seminario e si è preso cura di me. E quando gli ho raccontato la mia storia, il sacerdote ha deciso di andare a cercare la mia famiglia ed è tornato con mia madre. Da lei ho saputo di essere ricercato dai ribelli.A questo punto il sacerdote ha deciso di aiutarmi a fuggire dal paese. Ne ha parlato con un amico marinaio che lavorava su una nave mercantile e l’ha pregato di nascondermi a bordo. Sono riuscito così a fuggire. Ho raccontato la mia storia per parlare del coraggio che ciascuno di noi ha dentro di sé. Perché il coraggio di questa storia non è solo quello delle vittime. C’è anche il coraggio di mio padre che si è sacrificato per me. E c’è il coraggio di quel sacerdote, del marinaio. Coraggio, infine, è quel sentimento che prova chi rischia la propria vita per salvare quella degli altri. Se lo fai con amore, questo è il vero coraggio. (Tratto da Asylum Post, n° 2/2005)

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